PREMIO "STORIA DI NATALE" EDIZIONE 2008

La giuria del premio “Storia di Natale”, il premio promosso da Interlinea edizioni e dalla Fondazione Marazza di Borgomanero, con vari patrocini e collaborazioni, ha diffuso in questi giorni le proprie decisioni: per l’edizione 2008 il primo premio della sezione senza limiti di età è stato assegnato a i panini di natale di Guido Quarzo (pubblicato nella collana "Le rane" di Interlinea). La giuria ha segnalato come particolarmente meritevoli i testi di Roberto Zaretti (Una curva in fondo alla strada) secondo classificato e di Silvia Giani (Dò svidànija, Kirill!) terzo classificato. Una menzione speciale è stata riservata al racconto Il bambino a quattro ruote di Cristina Bellemo. I testi vincitori della sezione scolastica sono contenuti in un libretto distribuito gratuitamente durante la cerimonia e su richiesta.

 

 

 
 

secondo classificato
una curva in fondo alla strada

di Roberto Zaretti

Sapevo non sarebbe arrivato. Come non era arrivato l’anno precedente e quello prima ancora. La curva in fondo alla strada era muta da giorni. Del resto, anche in estate, non è che di auto ne passassero molte. Sapevo bene che chiunque avesse deciso di avventurarsi in quel mare di neve avrebbe dovuto farlo a piedi. E che avrebbe impiegato ore per arrivare. Ma ci speravo. Si, accidenti, erano anni che ci speravo. Cominciavo già i primi di dicembre a guardare quella curva e a sperarci.
Durante la bella stagione la sua assenza si faceva sentire, ma le corse nei campi, le vacanze, la raccolta delle mele e dell’uva riuscivano a impedirti di pensare. Ma a Natale, no.
Per le feste, mamma e papà si davano un gran da fare a comprare doni, addobbare la casa, mandare gli auguri a zia Clotilde e zio Gianni, che vivono in America. Poi preparavano la tavola con le candele e la tovaglia rossa, invitavano nonna Adele, stappavano lo spumante e auguravano a tutti un felice Natale.
Ma non era mai un felice Natale. Non lo era per nessuno. Non lo era da anni.
Certo, la vigilia si telefonava, si scrivevano i biglietti da appiccicare al regalo che mamma e papà gli avrebbero portato il giorno dopo. E nel pomeriggio del venticinque, finito di mangiare la torta, partivano per Milano e lo andavano a trovare. Ma io restavo a casa. “Non è posto per bambini”, diceva papà. “Quando sarai grande”.
Avevo parlato a Timmy di questo problema, ma non sembrava importargli più di tanto. Pur avendo solo dodici anni, so bene che un gatto non può venire a dirti “quanto mi dispiace” o “vedrai che tornerà”. Per il semplice fatto che i gatti non sanno parlare. Però, ascoltano. E comprendono.
Mamma piangeva. Lo faceva di nascosto, ma sapevo che lo faceva. A volte, sentivo lei e papà parlare sottovoce, per non farsi sentire. E ogni volta finiva che piangeva.
No, non sarebbe arrivato. A osservare bene, giù alla curva, si intuivano alcune impronte. Qualcuno era passato di recente. Ma andavano nella direzione opposta, verso il paese, E poi, la neve che continuava a cadere ormai da due giorni, le avrebbe cancellate nel giro di qualche ora. Avrei dovuto aspettarne di nuove.
Quando ero più piccolo, ricordo che domandavo spesso di lui. E ogni volta ricevevo una risposta diversa. Mamma diceva che era in America da zia Clotilde. Nonna raccontava che era ammalato e che doveva curarsi. Papà cercava di convincermi che aveva trovato un lavoro lontano e che per questo non riusciva a venire.
Nessuno voleva dirmi come stavano davvero le cose. Come se un bambino di sette anni non fosse in grado di capire.
E c’era un’altra cosa strana: nessuno pronunciava mai quella parola.
Se ne parlava la televisione, allora si cambiava canale. Se davano un film sull’argomento, allora papà diceva che non c’era nulla di bello e si giocava alle carte.
Lo facevo di nascosto. Quando restavo a casa da solo, oppure mi portavano da zio Gianni che è sordo, seguivo tutti i documentari sull’argomento. Anche i telegiornali, volevo sentire. A mamma dicevo di aver guardato i cartoni animati tutto il pomeriggio. Figurarsi. Credo di non averne mai visto uno in tutta la vita.
Ciò che mi aveva fatto più male era il fatto di averlo saputo a scuola. Nessuno me lo aveva detto prima. Pensavo davvero che Renzo fosse in America, o in un paese lontano.
“Tuo fratello è un drogato. Tuo fratello è un delinquente. Tuo fratello sta in galera, non l’hai ancora capito?”
Di notte piangevo. Non ci volevo credere. Mi chiedevo per quale ragione fossero tutti così cattivi. Poi, un giorno, trovai il coraggio di chiederlo a mamma.
«Chi ti ha detto una cosa del genere?»
«I miei compagni di classe.»
«Non gli devi credere. Renzo non è in prigione. È ammalato. Ma si sta curando in una comunità, e presto tornerà a casa.»
«Che cos’è una comunità?»
«è una grande famiglia, dove vengono curati i ragazzi che hanno i problemi di Renzo».
«Quali problemi?»
«Ha una malattia con il nome difficile. Ma guarirà.»
Col tempo, avevo imparato che la malattia con il nome difficile si chiamava eroina. Sapevo pure delle siringhe e dell’angoscia che ti prende quando l’effetto della droga è passato. Davano un programma in televisione, tutti i lunedì. Ne sapevo più di mamma e papà messi insieme, probabilmente. Ma non osavo dirglielo. Forse un giorno lo avrei fatto.
A una settimana dal Natale, l’ultimo giorno di scuola litigai con il Ceretti. Era il più cattivo di tutti. Per colpa sua, in classe ero “il drogato”. Diceva che Renzo stava in prigione perché condannato all’ergastolo. E che sarebbe finito sulla sedia elettrica.
Così, pur essendo più grosso di me, quel giorno gli diedi una sberla. Fortuna volle che la maestra se ne accorgesse per tempo e intervenisse prima che il Ceretti potesse reagire.
Andai a casa e raccontai tutto a nonna. Mi raccomandai tanto che non lo dicesse a mamma, ma lei lo fece ugualmente.
«Giuseppe, che hai fatto a scuola?»
«Nulla, mamma. Le solite cose. Mi prendono in giro.»
«Per via di Renzo?» Era stata la preside a dirglielo.
«No, che c’entra. Mi ha detto che sono uno stupido e gli ho dato una sberla.»
«Non voglio che fai a botte in classe!» Si avvicinò, si piegò sulle ginocchia e mi accarezzò i capelli. «Hai pensato a cosa vuoi per Natale? No, aspetta, Non me lo dire. Quest’anno avrai il regalo più bello del mondo. Un regalo che hai sempre sognato. Indovina un po’....»
La guardai, meravigliato. Non c’era nulla che desiderassi in maniera particolare. Vivendo praticamente da figlio unico, avevo sempre potuto avere tutto ciò che un bambino può desiderare. Un cavallo, forse. Ma mica me ne potevano incartare uno per Natale. In estate, probabilmente. Chissà. Papà me lo aveva promesso, fossi stato promosso.
«Non saprei..... È un cavallo?»
«Giuseppe....Un cavallo in pieno inverno? No. Di più. Molto di più.» Mi prese il viso tra le mani. «Chiudi gli occhi. Esprimi un desiderio. Qual è la cosa che più desideri al mondo?»
Non dovetti pensarci poi molto.
«Che Renzo torni a casa per Natale.»
Vidi il suo volto illuminarsi.
«Sai cosa fa papà, domattina? Lo sai?»
«No. Cosa fa?»
Mi diede un bacio in fronte, poi si alzò.
«Tesoro mio, preparati. Domani papà va a Milano a prendere Renzo!»
Non ci volli credere. Era troppo bello per essere vero. Ero convinto fosse una di quelle cose che si dicono per Natale, giusto per far contenti i bambini che sognano un giocattolo che non potranno avere.
«Non ci credo» ribattei, deciso. Mamma tornò a piegarsi sulle ginocchia.
«Domani Renzo torna a casa. Davvero. Te lo prometto. E passerà il Natale con noi.»
«Me lo prometti davvero?»
«Davvero.»
Urlai di gioia e corsi a raccontarlo a Timmy.
Babbo non sarebbe tornato prima di sera. L’auto era inutilizzabile per via della neve. Così, avrebbe dovuto andare a piedi fino alla fermata della corriera, giù nel piano, arrivare in stazione a Domodossola e prendere il treno per Milano. La stessa cosa al ritorno.
Mamma era indaffarata in parrocchia, in quel periodo, per via del presepe. Prima di uscire, si raccomandò di non stare con il naso appiccicato alla finestra, perché tanto papà e Renzo non sarebbero arrivati che in serata. Cercai di darle ascolto, ma in realtà alle due del pomeriggio già stavo a scrutare la strada.
Avevo pregato tutta la notte. Avevo chiesto a Gesù che fosse vero, che mamma non si fosse inventata quella storia solo per consolarmi.
Quante volte avevo odiato quella curva. La odiavo praticamente da quando, sei anni prima, aveva inghiottito Renzo. Faceva sparire papà, quando andava al lavoro. E mamma, quando andava in parrocchia o alla bottega, giù in paese. E ogni volta mi domandavo se li avrei rivisti. Quando ci passavo per andare a scuola lo facevo di corsa, per evitare che potesse far sparire anche me.
Ma ora mi avrebbe reso Renzo. Tra un’ora, due, dieci. Non potevo saperlo. Promisi a me stesso che l’avrei perdonata, avesse restituito mio fratello.
Rimasi incollato al vetro per ore. Verso le tre, per un attimo sembrò smettere di nevicare. Poi ricominciò.
Alle quattro sbucò un cane randagio, dall’andatura incerta. Fece qualche passo, poi tornò indietro e sparì un’altra volta.
Mamma sbucò in fondo alla strada che già iniziava a far buio. Cercai di nascondermi, per evitare che mi vedesse alla finestra. Ma lei sapeva bene che stavo lì.
«Giuseppe, è inutile che stai incollato a quella finestra. Non arriveranno prima delle otto. Vai in camera tua, che prendi freddo.»
Ma la mia camera guarda verso la montagna, mica verso la strada. Non avrei sopportato l’attesa.
«Mamma, ti prego. Fammi restare.»
Alle cinque si accese il lampione che illuminava la curva. Chiunque passasse sotto la luce della lampada avrebbe riflesso la propria immagine nella neve. Come un fantasma.
Arrivarono le sette. Poi le otto. Poi le nove. Giurai a me stesso che avrei maledetto quella curva per tutta la vita, non avesse fatto comparire Renzo.
Un quarto alle dieci, due ombre gialle si stagliarono nitidamente sotto la luce artificiale del lampione. Sentì il cuore salire in gola. Cercai di vedere meglio. Potevano essere papà e Renzo. Ma anche due persone qualunque. Ne viveva di gente, in frazione.
Mi avvicinai al vetro. Sempre di più. Per un attimo ebbi l’impressione di poterlo attraversare. Aprì la finestra.
«Giuseppe! Sei matto? Chiudi quella finestra. Vuoi prenderti una......»
«Mamma.... sono loro. È Renzo. È Renzo, vero? Si è lui. Sono sicuro.»
Mamma si avvicinò alla finestra, guardò un istante, poi portò le mani sul volto e scoppiò in lacrime.
Non attesi la risposta. Mi precipitai per le scale, aprì la porta e mi misi a correre nella neve. Con le pantofole ai piedi e il pigiama indosso, il gelo penetrava nelle ossa ogni passo di più. Sentivo mamma che urlava. Strillava di polmoniti, bronchiti e non so che altro. Ma neppure tutte le polmoniti del mondo mi avrebbero potuto fermare.
«Renzo, Renzo» urlai.
Una delle due ombre cominciò a correre. Ci incontrammo esattamente a metà strada. Credo restammo abbracciati per almeno dieci minuti. Fu papà a staccarci e a portarci a casa.
Il giorno di Natale, mamma portò tutti a Messa. Prima della funzione passammo a vedere il presepe che aveva preparato insieme alle altre donne del posto. Non credo di averne mai veduto uno più bello. O forse era la gioia che provavo, a farmelo apparire così.
Ero felice. Come non lo ero mai stato. Pure mamma e papà lo erano. E pure nonna. Anche Renzo, credo.
Eppure, nell’aria si percepiva qualcosa di strano. Pensai si trattasse solo di una mia sensazione, e sorvolai sulla questione.
«Renzo, non la prenderai più quella roba, vero?» gli chiesi quella sera, infilandomi nel suo letto.
«No, Giuseppe. Non la prenderò più.»
«Me lo prometti?»
«Te lo prometto. Ma a una condizione.»
«Quale?»
«Che tu prometta a me di non caderci mai. Di non pensare mai, nemmeno per un minuto, che sarebbe bello provare. Che saresti in grado di farlo una volta sola e poi di lasciar perdere. Vedi, il problema è che, se provi una volta, una volta sola, non puoi più tirarti indietro. Lo vorresti fare. Ti accorgi di quanto stai male. Ti accorgi che stai rovinando la tua vita e quella di chi ti sta vicino. Ma non riesci a smettere. Proprio non riesci. Promettimi che non ti lascerai fregare...»
«Te lo prometto.»
«Un’altra cosa, Giuseppe. Vorrei te la ricordassi, in modo da non commettere l’errore che ha fatto quello stupido di tuo fratello.»
Lo guardai. Sembrava sul punto di rivelare un grande segreto.
«Di che si tratta?» domandai, curioso.
«Prima o poi, qualcuno ti dirà che se non provi non sei un uomo. Che non hai coraggio. Che sei un verme. Forse i tuoi amici non ti parleranno più, se ti rifiuterai di farlo. Forse non verranno più a cercarti. Non gli credere. Ricordatelo: non gli credere mai! Un vero uomo non si fa tentare dalla droga, per il semplice fatto che ne può fare a meno.»
«E una donna?»
«Pure.»
Erano tutte cose che già conoscevo. Le avevo imparate grazie alla televisione. Ma una cosa è sentirle in televisione, l’altra è farsele raccontare da chi le ha vissute sulla propria pelle.
A gennaio tornai a scuola. E mi accorsi subito che qualcosa non andava.
Nessuno mi prendeva più in giro. Nessuno mi chiamava più “il drogato”. Però, mi evitavano. Tutti. Anche Francesco, il mio compagno di banco. Un giorno glielo chiesi.
«Perché non mi parli più? E perché nessuno mi saluta? Che ho fatto?»
«I miei non vogliono che ci vediamo. Mi hanno detto di non rivolgerti la parola.»
«E perché mai?»
«Dicono che siete una famiglia cattiva.»
In quel momento capì molte cose. I pianti di mia madre, che non riuscivo a spiegarmi, visto che Renzo era tornato a casa. L’indifferenza della gente, che non mi salutava più quando la incontravo per strada. Il fatto che mamma e papà non uscissero più di casa, se non la domenica per andare in chiesa.
«Mamma, perché ce l’hanno con noi?» domandai una sera, a tavola.
«Nessuno ce l’ha con noi. Che stai dicendo?»
«Si, invece. A scuola nessuno vuole stare in banco con me. E la maestra mi ha messo in fondo all’aula, da solo. Non ci voglio stare, da solo. Non mi piace.»
«Verrò a parlarci. Non ci pensare.»
«Anche i Ceretti non parlano più. L’altro giorno papà ha salutato il signor Luigi, e quello ha fatto finta di niente. Per quale motivo?»
«Non ci pensare. La gente ha tanti problemi. A volte non ha voglia di salutare.»
Nei giorni a seguire, successero delle cose ancor più strane. Qualcuno strappò la nostra cassetta postale dal palo a cui stava fissata. Un altro giorno, papà trovò la nostra pianta di mele segata.
Una brutta sera, successe una cosa terribile: Timmy non tornò più. Mamma passò ore a chiamarlo, in veranda. Io rimasi sveglio una notte intera ad aspettarlo. Ma lui non tornò più. E persi l’unico vero amico rimasto.
Alle porte della primavera presi un grande spavento.
Di ritorno da scuola, seppi da nonna che Renzo era stato portato via dai carabinieri.
C’era stato un furto in una casa del paese. I ladri erano entrati smontando una serratura molto complicata. Un lavoro da esperti, si diceva. Qualcuno aveva fatto il nome di Renzo. E così, siccome tanti anni prima lui era stato arrestato per aver rubato in una casa, i carabinieri erano venuti a cercarlo.
Quel pomeriggio, ripresi posto alla finestra. Sapevo che non poteva essere stato Renzo a rubare in quella casa, e quindi ero certo che sarebbe tornato prima di sera. Ma anche quella volta, come aveva fatto per anni, la curva tacque.
Pensando a quel periodo, ricordo le numerose telefonate di papà: all’avvocato, ai signori che avevano subito il furto, ai carabinieri.
Il giorno dopo, a scuola, notai subito di stare al centro dell’attenzione. Durante la ricreazione, il Ceretti andò alla lavagna e scrisse “il fratello di Giuseppe Sartori è un ladro”.
«Mio fratello non è un ladro!» urlai. Saltai sul banco e poi verso la lavagna. Cercai di rifilargli un pugno sul muso. Ma quello era almeno due volte più grosso. Mi diede uno spintone e mi mandò a sbattere contro la parete. Picchiai pure la testa, tant’è che cominciò a uscire sangue.
La maestra, spaventata, mi portò in infermeria, poi chiamò mamma che venne a prendermi.
«Non ci voglio più venire a scuola» dissi, piangendo.
Mi misero un grosso cerotto e tornammo a casa. Almeno per quel giorno, avrei saltato la lezione.
La macchina di papà spuntò dalla curva che cominciava a far sera. Erano passati due giorni da quando i carabinieri avevano portato Renzo a Verbania, e finalmente avevano deciso di rilasciarlo. In attesa che si facesse il processo.
Prima ancora che entrasse nel cancello, già stavo in fondo alle scale per poterlo abbracciare.
Mi accorsi ben presto che la gente del paese aveva emesso una sentenza ben prima che il tribunale emettesse la propria.
Renzo era stato giudicato colpevole e condannato all’isolamento.
Quando attraversava il paese, di ritorno dai prati dove si faceva il fieno, le persiane delle case si chiudevano improvvisamente. La gente cambiava strada, se lo incontrava. Le donne stringevano forte la borsa sotto il braccio. Gli uomini abbassavano la visiera del cappello, per non salutare.
Renzo faceva finta di niente, ma si vedeva che soffriva. Aveva provato a cercare un lavoro, ma nessuno era disposto a fidarsi di lui. Un tale Vivenzi, un vecchio che viveva al margine del bosco con un paio di mucche e una decina di conigli, cercava da tempo qualcuno che desse una mano per spazzare la cascina e fare la legna. Nessuno si era presentato, perché sono lavori pesanti. Renzo lo aveva fatto. E il vecchio aveva accettato.
Neanche due giorni dopo gli disse di andare via, nonostante si vedesse bene che era contento del lavoro fatto.
Sapemmo poi che qualcuno aveva minacciato di ammazzargli i conigli, avesse continuato a dare lavoro a quello che chiamavano “il delinquente”.
L’atteggiamento della gente non cambiò neppure quando gli autori del furto vennero scoperti. Si trattava di due balordi, pescati poco tempo dopo a rubare in una casa utilizzando la tecnica di smontare le serrature.
Con il passare del tempo imparammo a convivere con questi pregiudizi. Non credo che la gente lo facesse per cattiveria. La questione era che di droga si parlava, talvolta anche a scuola, ma tutti lo consideravano un problema della grande città. Sapere che era già arrivato in paese faceva paura. Così, ognuno cercava di difendere la propria famiglia reagendo in quel modo.
In fin dei conti, ciò che importava davvero era poter stare insieme. Mamma, papà, nonna, Renzo e io.
Certo, mamma aveva smesso di frequentare la parrocchia per non sentire i pettegolezzi delle comari, che iniziavano a bisbigliare ogni volta che la vedevano arrivare. Pure papà non andava più a giocare alle carte, il sabato sera.
Così, ce ne stavamo tutti insieme a guardare la televisione o a parlare. A volte, si cantava. Altre, nonna cominciava a raccontare della guerra e dei partigiani. Papà allora andava a dormire, perché quelle storie le conosceva bene e lo annoiavano. Io, invece, sarei rimasto alzato tutta la notte ad ascoltarle.
Quell’anno la neve arrivò prima del solito. Già a metà novembre, un manto bianco spesso quasi mezzo metro cambiò i colori delle cose uniformando il paesaggio in un’unica tonalità bianca.
E andò avanti così per giorni, al punto che, i primi di dicembre, il sindaco emise un’ordinanza di chiusura delle scuole.
Credo sia stato uno dei periodi più belli della mia vita.
Insieme a Renzo si andava a correre con la slitta, si facevano pupazzi, si combatteva a palle di neve. In quei momenti, l’ostilità del paese era come se non esistesse. Ero forse l’unico bambino a non avere amici, a non poter giocare a pallone con gli altri, a non essere chiamato per le feste di compleanno. Però c’era Renzo con me. E lui valeva più di tutti gli altri messi insieme.
Ciò che sulle prime era parsa una gradita sorpresa, con il passare delle settimane cominciò a diventare un problema.
La grande massa di neve impediva alle auto di circolare, ma pure la corriera, giù in pianura, era spesso bloccata. Così, papà non poteva andare al lavoro.
Spesso gli uomini del paese si trovavano a casa dell’uno o dell’altro per liberare una stalla, per riparare un tetto crollato o per aiutare un anziano in difficoltà. Anche papà ci andava, pur se nessuno veniva mai a chiamarlo.
Nevicò talmente tanto che dovetti rinunciare a fare l’albero di Natale sul pino che tutti gli anni addobbavamo con le palline luminose. Così, mamma comprò un piccolo alberello da tenere in casa, vicino al camino. Non era proprio la stessa cosa, ma per quell’anno avrei cercato di accontentarmi.
Era la notte di Natale. Non lo potrò mai dimenticare.
Quella che avrebbe dovuto essere la notte più bella dell’anno, si rivelò piena di incubi, di urla, di draghi con la lingua di fuoco e di persone malvagie. Una di queste prese a rincorrermi con un coltello. Per quanto corressi forte, riuscì a raggiungermi e a colpirmi. Mi svegliai bruscamente, e mi accorsi che le urla c’erano davvero. Che la gente correva davvero. La luce della cucina attraversava il corridoio e si infilava sotto la fessura della porta.
Mi precipitai di sotto. Mamma stava chiudendo il bavero della giacca a vento di Renzo. Papà stava allacciando gli scarponi. Nonna era in un angolo, preoccupata.
«Che state facendo?» chiesi, stropicciando gli occhi. «è già ora di colazione?»
«Torna a dormire» intimò mamma. «è notte fonda. Papà e Renzo devono uscire. Tu torna a dormire.»
«Come, devono uscire? Che cosa è successo?» Corsi alla finestra e sbirciai attraverso le persiane. Sulla strada la gente correva e urlava. Tutti in un unica direzione. Verso la curva. «Si può sapere cosa sta succedendo?» tornai a chiedere. Fu nonna a dirmelo.
«è caduta una valanga, su all’albergo. Stanno andando ad aiutare quegli sventurati. Lo dicevo che la temperatura era troppo alta, per essere dicembre. Lo dicevo.»
L’albergo! “La Stella dei Monti” era pieno di turisti, in quel periodo. Arrivati per le vacanze di Natale. Avrebbe potuto essere un disastro!
Feci credere a mamma che sarei andato a dormire. Sgattaiolai in cantina, indossai gli scarponi e la giacca a vento e mi mischiai alla gente che andava verso l’albergo.
Quando arrivai, rimasi a bocca aperta. Una parte dell’edificio era crollata. I fari dei pompieri illuminavano la scena come fosse giorno. Tutt’intorno, gente che piangeva, auto distrutte, maglioni e sci sparsi sulla neve. La scuola, posta proprio di fianco, era invece solo stata sfiorata dalla valanga. Non posso dire che la cosa mi facesse piacere.
Vidi decine di persone scavare nella neve. Altre, spostare travi. Altre ancora, urlare e correre senza una ragione apparente.
Si udivano pianti, urla, lamenti.
Ebbi l’impulso di scappare a casa, inorridito. Ma qualcosa mi impedì di farlo. Restai impietrito a guardare, a sperare che fosse solo un brutto sogno.
Poi, me ne accorsi. C’erano altre persone, più a valle. E un altro edificio crollato. Evidentemente, la corsa della slavina non si era arrestata contro i muri dell’albergo, ma aveva proseguito travolgendo una casa posta un centinaio di metri più sotto, in direzione del centro del paese. Sapevo bene di chi era quella casa, perché ogni volta che passavo di là facevo bene attenzione a evitarla.
D’un tratto, sentì una voce che urlava “corriamo dai Ceretti, qui ci pensano i pompieri. Per fortuna, non è rimasto sotto nessuno”. In effetti, la valanga aveva distrutto solo la parte laterale dell’albergo, nel punto dove si trovava la sala del ristorante, deserta a quell’ora della notte. Le camere, invece, non erano state toccate.
Nascosto dietro a un pilastro, riconobbi Renzo e papà correre insieme agli altri. In un momento tanto drammatico, evidentemente, la paura di stare gomito a gomito con un drogato era stata messa da parte.
Quando tutti furono passati, presi a correre nella stessa direzione. Non posso dire che il Ceretti mi fosse simpatico, ma mi sarebbe comunque spiaciuto gli fosse successo qualcosa.
La scena che mi si parò davanti, credo mi resterà scolpita nella mente fino all’ultimo dei giorni.
La casa dei Ceretti non c’era più. Solo un mucchio di rovine. Sassi, uno sull’altro. Resti di mobili, attrezzi da lavoro, scarpe. Degli occupanti, neppure l’ombra.
Qualcuno cominciò a scavare, ma ci si accorse ben presto che la grossa trave centrale che sosteneva il tetto stava in bilico, appoggiata all’unico muro rimasto intero. Avrebbe potuto crollare da un momento all’altro e trascinare con sé quanto ancora si reggeva in piedi.
«State zitti!» urlò un uomo. La gente smise di parlare. Arrivarono nitidamente dei flebili lamenti. Sotto le macerie, qualcuno era sopravvissuto. Mi ricordai di essere stato dai Ceretti una volta, quando ancora Renzo non era tornato a casa. Le camere da letto, come del resto gli altri locali, stavano nel seminterrato. Al piano di sopra ci tenevano il fieno, che in effetti si vedeva sparpagliato tutt’intorno. Quindi, avrebbero potuto essersi salvati.
«Dobbiamo fare in fretta, prima che venga giù tutto» urlò qualcuno. «Se crolla quella trave, sono spacciati.»
Due uomini tornarono ad avvicinarsi alle macerie, ma nell’istante in cui provarono a spostare un pezzo di muro, la trave scricchiolò paurosamente.
«Mio Dio! Rischiamo di farli morire, se spostiamo qualcosa. Non possiamo fare niente. Ci vuole una gru che sollevi quella maledetta trave. Qualcuno chiami i pompieri!»
«Non possiamo aspettare. Ogni minuto che passa potrebbe essere l’ultimo. Se non sono ancora morti, è perché la trave regge sulla testa di quei poveracci quel che resta della casa. Bisogna trovare il sistema di tirarli fuori. Subito!»
Furono i vicini di casa dei Ceretti a lanciare l’idea.
«Qualcuno potrebbe infilarsi sotto la trave e, attraverso la botola che comunica con il piano sottostante, portare soccorso a quegli sventurati. Può essere che, uno alla volta, si riesca a tirarli fuori.»
La cosa avrebbe voluto dire rischiare di rimanere sotto per sempre. E questo era ben chiaro a tutti. Tant’è che nessuno commentò la proposta. Anzi, si cercò di ignorarla.
Alcuni uomini provarono ancora ad aprire un varco tra le macerie, e ancora la trave minacciò di cadere.
«Vado io.»
Ci fu un silenzio generale, che si trasformò presto in brusio.
Mi si gelò il sangue nelle vene. A quel punto non riuscì più a stare nascosto e mi precipitai verso la folla.
«Renzo, no, non lo fare, ti prego!»
Qualcuno si voltò verso di me. Cercai di scansare i presenti per poter raggiungere mio fratello. Ma, all’improvviso, due braccia forti mi sollevarono di peso.
«Che ci fai, qui?» chiese l’uomo. Riconobbi la voce di mio padre. «Torna immediatamente a casa.» Si girò verso un gruppetto fermo a discutere, poco più in là. «Qualcuno porti a casa questo ragazzino» tornò a urlare.
Un uomo ci venne incontro e mi prese in braccio. Cercai di scalciare e di liberarmi, senza riuscirci. Feci solo in tempo a vedere la sagoma di Renzo arrampicarsi sulle macerie e sparire sotto la trave, tra lo sgomento e il silenzio dei presenti.
Persi i sensi dal dispiacere.
Mi svegliai che il sole era già alto. Mamma doveva avermi riempito con una delle sue tisane di erbe, che servono sia per farti dormire che per correre al bagno.
Appena ebbi la cognizione di quanto fosse successo, presi a urlare il nome di mio fratello. Mamma non tardò a precipitarsi in camera. Mi diede un bacio sulla fronte.
«Buon Natale, Giuseppe.»
«Renzo! Dov’è Renzo? Dov’è?»
«Calmati. Dove vuoi che sia? È da basso che ti aspetta. Tutti quanti stiamo aspettando solo te per aprire i regali. Lo sai che è quasi mezzogiorno e che hai saltato la messa? Così ti toccherà andarci stasera.»
«Davvero Renzo è giù con voi?» domandai, incredulo.
«Dove dovrebbe essere? Dai, muoviti.»
Cominciai a pensare di avere sognato. La valanga, la casa dei Ceretti, la trave scricchiolante. Che mi fossi inventato ogni cosa?
Quando arrivai di sotto, il camino era acceso. Sotto l’albero che mamma aveva preparato al posto del grande pino, una montagna di pacchi colorati attendevano i legittimi proprietari.
«Che è successo stanotte?» domandai a Renzo.
«è nato Gesù.»
«Certo. Ma è successo anche dell’altro...»
«Cosa intendi dire?»
«La valanga, la casa dei Ceretti, i pompieri....»
Si avvicinò e mi tirò i capelli.
«Se non la finisci di riempirti di dolci tutte le sere, altro che pompieri.... Finirà che ti sogni i dinosauri!»
Lo guardai, allibito. Dunque, mi ero sognato ogni cosa? Non c’era stata alcuna valanga?»
«A tavola!» urlò mamma. «Penserete dopo ai regali.»
Non riuscimmo neppure a sciogliere i tovaglioli. Qualcuno bussò alla porta. Papà andò ad aprire.
Era il signor Casati, parente stretto dei Ceretti. Li sentì confabulare per un paio di minuti. Poi l’uomo se ne andò.
Papà entrò in sala con due bottiglie di vino e le appoggiò alla base dell’albero.
«Cosa sono?» domandai.
«A giudicare da ciò che si vede, sembrerebbero due bottiglie. Penso si tratti di un regalo.»
«Un regalo? Un regalo di chi? Dei Casati? Ma se non ci parlano neppure!»
Bussarono un’altra volta. Si ripeté la scena. Questa volta era la signora Giuliana, che viveva in centro al paese. Ancora una volta, babbo tornò con un regalo, che nella circostanza era una piccola forma di formaggio.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» domandai, sconcertato. Mi accorsi che nonna stava a sbirciare dalla finestra. Si voltò. Scorsi un grande sorriso sul suo volto.
«Vieni a vedere» bisbigliò, facendo un cenno con la mano. Mi precipitai.
Ciò che apparve ai miei occhi in quel momento non potrò mai dimenticarlo. Un giorno lo racconterò ai miei figli, e poi ai nipoti.
In mezzo alla neve, decine di persone stavano pazientemente in fila lungo la strada. La coda, che partiva dal cancello di casa nostra, arrivava fino alla curva e poi spariva alla vista.
Non capì immediatamente cosa stesse succedendo. Vidi Renzo alzarsi e andare alla porta. Mi avvicinai. E finalmente tutto fu chiaro.
«Volevo chiederti scusa, Renzo, per come ti abbiamo trattato. A nome mio e di tutta la famiglia. Volevo dirti che, d’ora in avanti, sarai sempre il benvenuto.» Anch’egli lasciò un regalo, probabilmente preso dalla cantina di casa all’ultimo momento.
Solo alle quattro riuscimmo a mangiare qualcosa. Pensando a tutti gli abitanti del paese, non credo ce ne fosse uno che avesse rinunciato a domandare scusa a Renzo e a complimentarsi con lui per l’altruismo dimostrato.
Seppi poi che i Ceretti si erano salvati e stavano bene perché Renzo era riuscito a portarli fuori uno alla volta. Neanche mezz’ora più tardi, la casa era crollata completamente, ma la solidarietà del paese l’avrebbe ricostruita più bella di prima.
Mio fratello aveva dovuto rischiare la vita per dimostrare quanto valeva. E per dimostrare che un uomo può sbagliare, ma non per questo deve essere dimenticato da tutti. Specie se ha deciso di cambiare.

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Sono passati molti anni, ma ogni tanto mi fermo ancora davanti a quella finestra, ripensando a un meraviglioso Natale trascorso a guardare il paese sfilare lungo la strada e sparire dietro la curva.


 

terzo classificato
Do svidànija, Kirill!

di Silvia Giani

Era la mamma, lo stava chiamando dalla cucina per la colazione. Probabilmente strillava già da un po’, e senza ottenere risposta, dato il tono di rimprovero del suo “Federico allora vuoi alzarti o no?”. Ma Chicco se ne stava rendendo conto solo ora, e non senza difficoltà, ancora parzialmente intrappolato nel bellissimo sogno di poco prima, nel quale la voce della mamma arrivava alle sue orecchie addormentate come il verso, simile a uno strano muggito, del tarabuso.
Ad ogni modo, per evitare l’incombente sgridata, si alzò dal letto scrollando la testa, con l’intento di scrollare via anche gli avanzi di sogno, andò di corsa al lavandino a sciacquarsi la faccia e fece giusto in tempo a sedersi davanti alla tazza di latte tiepido e ai biscotti al cioccolato prima che la mamma, ancora intenta ai fornelli, si girasse per l’ultima volta a controllare che fosse finalmente arrivato… “’Giorno ‘ma”. “Ciao tesoro. Dormito bene?”. E Federico di nuovo era lì, con un mezzo biscotto inzuppato in mano e l’altra metà che ricadeva fragorosamente nella tazza schizzando di latte tutt’intorno. Le goccioline biancastre si trasformavano davanti ai suoi occhi trasognati nelle piccole esplosioni liquide provocate dalle zampe degli aironi cinerini in fase di atterraggio nelle lanche del Ticino. Sembrava proprio che il destino riservatogli per quel giorno fosse di rivivere a occhi aperti il meraviglioso sogno della notte prima, e lui non aveva intenzione di sforzarsi troppo per resistergli. “Dormito bene, ho detto?”, e la voce della mamma a quel punto era a un passo dal salto di tonalità che lui conosceva molto bene e che precedeva di qualche centesimo di secondo l’urlata furibonda. “Eh? Sì, scusa…, sai, ho fatto un sogno bellissimo… ero giù in vallata con Kirill, sai, come quella volta che noi due eravamo andati a fare il bagno alla cava, sai, ma stanotte noi eravamo là al passaggio di migliaia di uccelli che cercavano l’acqua per bere, lavarsi, rinfrescarsi dalla calura estiva, c’era un frullare d’ali incredibile, e si lasciavano anche accarezzare…”.
“Accidenti Chicco, sarà già il centesimo sogno di acqua, sole, estate, uccelli, parco che fai… Non sarebbe ora di pensare anche ai compiti delle vacanze? Va che tra un po’ ti sognerai anche quelli, anzi, avrai degli incubi tremendi al riguardo se non li finirai prima di tornare a scuola!”.
Come al solito, la mamma aveva ragione. La scuola sarebbe ricominciata tra meno di due settimane e bisognava davvero sbrigarsi. Una fugace visione della professoressa Cragnotti e del preside La Secchia gli era balenata davanti agli occhi… Mai come quell’anno Chicco si sentiva terrorizzato all’idea di trascorrere gran parte delle giornate seduto con la testa china a scrivere e leggere e ascoltare noiose teorie matematiche e racconti di storie lontane da lui mille e più anni. Mai come in quel momento aveva voglia di vivere le sue di avventure, di scoprire nuovi paesaggi e piccole creature nascoste nelle cortecce e tra l’erba, piuttosto che tra le pagine patinate dei libri di testo. Proprio come aveva fatto per quasi tutta quell’estate, la più bella che si ricordasse da quando era nato.
Era l’inizio di gennaio di quell’anno e un venerdì sera, appena finita la cena, Chicco come al solito chiese di potersi alzare per andare ad occupare il posto migliore sul divano e spaparanzarsi in attesa del filmone, mentre mamma e papà sparecchiavano e lavavano i piatti in cucina. Del tutto inaspettata, la risposta fu “No, stai seduto ancora, per favore. Papà ed io ti dobbiamo parlare.”. A seguire, un gioco di sguardi tra i genitori che Chicco non riuscì a decifrare. Gli agnolotti al pesto appena mangiati gli si bloccarono immediatamente nell’esofago e sembravano quasi voler tornare indietro. Mentre una sinistra sensazione di gelo gli si diffondeva per tutto il corpo, la sua mente andò alla pessima interrogazione di storia del giorno prima, ma loro non ne potevano sapere ancora niente… o forse si trattava del graffio sulla portiera, che però pensava di avere quasi del tutto cancellato… “Oh cavolo non sarà mica per la storia del cellulare nel water…?”. Ma non fece in tempo a formulare completamente quell’ultimo pensiero, che il papà, dopo essersi schiarito la voce come da copione, attaccò: “Federico – e già sentirgli pronunciare il suo nome per intero aveva qualche cosa di estremamente insolito – è da tempo che la mamma ed io volevamo parlarti di questa cosa e ci sembra che sia arrivato il momento giusto. Ti abbiamo sempre detto che ci sarebbe piaciuto darti un fratello…o una sorella…” Federico interruppe le serie parole di papà e urlò, tra il divertito e lo spaventato: “Non ci posso credere! Mamma, sei incinta? Ma dai, non ci posso proprio credere… e alla cameretta avete pensato? E come lo chiamerete? Ma quando arriverà? La play comunque rimane mia, e anche la bici rossa… Ma scusa mamma non ti si vede neanche un po’ di pancione!”.
“Calmati amore, non saltare alle conclusioni... in effetti non sono più così giovane e comunque non avevamo pensato a un piccolino strillante. Ecco, se ci lasci parlare ti spieghiamo meglio”.
E fu così che Federico venne a sapere dai suoi che dopo qualche mese sarebbe entrato in casa sua non l’essere indifeso e lagnoso che già aveva un’immagine precisa nella sua testa di bambino - e alla quale dovette rinunciare inaspettatamente a malincuore - bensì un ragazzino all’incirca della sua età, undici anni, di cui ancora non si conosceva il nome, che proveniva da un Paese mai sentito prima – la Bielorussia- e che si sarebbe fermato solo per un mese.
“Cosa cosa cosa? Scusate ma non potevate dirmelo prima?Avete deciso come al solito tutto voi, se ho ben capito dovrò condividere la mia camera per trenta giorni con uno sconosciuto! Che non parla la mia lingua! Si può sapere perché?!?”
Papà e mamma, che conoscendolo da un bel pezzo avevano previsto la reazione brusca del loro caro figliolo, si armarono di santa pazienza e con grande semplicità gli spiegarono che “La zona della Bielorussia - Sonia sembrava aver studiato a memoria la parte - che si trova vicina al confine dell’Ucraina è stata contaminata, diversi anni fa, dalle radiazioni fuoriuscite dalla centrale atomica di Chernobyl. Le conseguenze di quell’incidente fanno ancora oggi ammalare migliaia di persone, soprattutto bambini, costretti a mangiare cibi radioattivi e a respirare quell’aria… inquinata. Pare che trascorrere almeno qualche settimana all’anno lontano dalle terre contaminate avendo a disposizione regolarmente cibi freschi e genuini sia di grande aiuto per le persone che, per diversi motivi, non possono andare a vivere lontano dalle zone contaminate…”.
A Federico il nome di Chernobyl diceva qualcosa: “Ma sai che a scuola la prof. Saporelli ci ha parlato proprio di quella centrale atomica che ebbe un incidente… le ho viste, sul libro di storia, quelle foto di terre abbandonate… sì, c’era anche la foto di un ospedale mi sembra… con bambini senza capelli…”.
“Purtroppo infatti ad ammalarsi ancora oggi, come ti dicevo, sono proprio i più piccoli…Vedi, ci hanno detto il bambino che starà con noi abita a Zhlobin, nel sud della Bielorussia. Lui sta benissimo, lo ospiteremmo a casa nostra proprio per evitare che si possa ammalare in futuro. Capisci? Comunque rilassati, non dovrai condividere, come hai detto tu “con uno sconosciuto” le tue cose a lungo, lui farà da noi una specie di vacanza estiva, tutto qui. A casa ha le sue, di cose, e la sua famiglia. Ci abbiamo pensato bene, il papà e io, e ci è sembrato che ospitare un bambino per un mese sia uno sforzo davvero piccolo in confronto ai benefici che potrebbero derivare… Tu che cosa ne pensi?”.
“Beh, messa così, la cosa non suona poi tanto male…”.
“Sarebbe bello anche per te, Chicco. Noi ormai siamo un po’ …come dire…” il papà non trovava la parola giusta…
“Bacucchi?” fortunatamente Chicco aveva il dono della sintesi.
“Sì, ecco, più o meno quel che volevo dire… siamo un po’ “bacucchi” per occuparci di un bambino a tempo pieno. Per un mese però ce la possiamo fare, non è che siamo proprio da buttare via… il nostro ospite assaggerà i manicaretti della mamma e respirerà aria buona e tu… dovrai lasciare un po’ di spazio quando ti spaparanzerai sul divano! A proposito, adesso vai pure, che il film starà per iniziare”.
Federico si gustò la visione di “Indiana Jones e il drago nepalese” in totale relax, Giovanni e Sonia non sapevano che cosa pensare: la notizia, che credevano avrebbe in un modo o nell’altro scosso Federico, in realtà sembrava averlo lasciato quasi del tutto indifferente. Finito il film, diede la buonanotte e come sempre si tuffò nel suo letto chiedendo il permesso di leggere almeno un capitolo di “Harry Potter e la scimitarra thailandese”.
“ ‘Notte pa’, ‘notte ma’ ”.
“’Notte Chicco, a domani”.
Forse i genitori non lo conoscevano poi così tanto bene, il loro piccolo adolescente… Quella notte infatti Federico si girò e rigirò e girò ancora nel letto pensando a quel ragazzino, se lo figurava alto alto, con i biondi capelli a spazzola e dei muscoli potenti da far paura, tipo l’avversario di Rocky Balboa che diceva “Ti spiezzo in due”. Dopo un minuto invece diventava un tipo mingherlino, con gli occhiali spessi, antipaticissimo e schizzinoso. Sapeva in cuor suo che, come aveva detto la mamma, trenta giorni non erano poi molti, ma si trattava comunque di un affare serio…
Ad ogni modo nelle immagini che quella notte precedettero il suo addormentamento totale, Chicco vide tra le altre cose delle epiche sfide a ping pong, a calcetto e briscola all’ultimo sangue, senza contare mitiche partite a scacchi, naturalmente.
La mattina dopo, ancora sotto al piumone giallo, tese l’orecchio e ascoltò i consueti rumori di mamma e papà che, tra uno sbatacchiare di porte e uno sciabattamento, si preparavano per andare a fare la spesa settimanale al supermercato. Aspettò lo “sbam” finale del portoncino d’ingresso, lo scricchiolio della ghiaia sul vialetto e finalmente si trascinò giù dal letto: senza nemmeno dare retta ai brontolii dello stomaco che reclamava la colazione regolamentare, Federico andò dritto dritto alla libreria dello studio e, ancora avvolto dal piumone, iniziò la sua ricerca: “Balistica, belato, biacca…Bielorussia!”; trovò rapidamente quello che cercava sulla polverosa Enciclopedia Universale Treccioni. Gliela aveva regalata il nonno Umberto per i suoi otto anni, ma a quanto gli pareva di ricordare, quella era la prima volta che consultava uno dei volumoni rossi. Di quel regalo aveva apprezzato soprattutto il gadget allegato, la fantastica play station ultra accessoriata di livello trentatré. Lesse sull’aggiornatissima Enciclopedia che il curioso nome di quella lontana nazione significa “Russa Bianca”, che la sua capitale è Minsk, che si parlano il russo e il bielorusso, che si coltivano soprattutto lino e patate, che il fiume Dnepr è molto importante, che praticamente non ci sono montagne, che la moneta è il rublo bielorusso, che Zhlobin è vicina alla città di Gomel e possiede una importante acciaieria.
“Cavolo! – disse a voce alta Chicco chiudendo con un botto il librone – Io manco sapevo che esisteva, questo posto! E non è neanche così piccolo!”. Il passo successivo fu di andare in ripostiglio per recuperare la scala e poi di arrampicarsi su su fino all’ultima mensola dello scaffale del soggiorno: portare giù il pesante mappamondo luminoso non fu semplice come previsto, Chicco rischiò almeno due volte di scivolare e di ridurre a frittella, oltre che il globo, anche il suo sedere… fu solo la fortuna a farlo atterrare su due piedi dopo lo scivolone sull’ultimo piolo. “Bum!”, il parquet rimbombò fragorosamente. Appoggiò con religiosa attenzione il mappamondo sul tappeto – si trattava pur sempre di un reperto antico, usato già da sua madre quando frequentava le scuole elementari – vi si sdraiò di fronte, soffiò via la polvere, tossì e lo scrutò. Aveva un’idea vaga della collocazione geografica della Bielorussia, però dopo quasi venti minuti di ricerca e con il dito indice bollente a forza di essere strofinato sulla superficie rugosa della terra in miniatura, gli venne un sospetto… Riprese il volumone rosso, lo riaprì e, leggendo con maggiore attenzione, finalmente capì: la Bielorussa si era resa indipendente dall’Unione Sovietica nel 1991, perciò sul mappamondo antidiluviano non aveva trovato traccia dei suoi confini… Ma di Minsk e di Gomel, comunque, si fece un’idea. Stavano in mezzo a paesi dai nomi impronunciabili - come se in quei posti le vocali fossero un optional e la zeta e la erre la facessero da padrone - e comunque, a vederla dall’alto, Gomel non era così lontana da Oleggio, e dalla sua casa! In fin dei conti, il Mar Rosso dove era appena stato in vacanza con i suoi era lontano due spanne della sua mano, Gomel invece soltanto una. Quest’ultima considerazione, non sapeva bene perché, ma lo rassicurò moltissimo. Federico decise che per quel giorno poteva bastare e andò a rimettere il Treccione al suo posto, e la scala pure.
Dopo quella full immersion nell’esotico mondo bielorusso, Federico ritenne di saperne abbastanza e per qualche tempo, davvero non ci pensò più. Occasionalmente, se notava sui giornali di papà e mamma qualche notizia interessante o qualche immagine, la ritagliava per metterla da parte. Una volta era dal parrucchiere per il consueto taglio-a-zero, considerato da Sonia l’unico valido metodo anti-pidocchio, e gli capitò di leggere un bell’articolo sulla rivista “Miao Bau Animali dal mondo” che parlava del bisonte bielorusso delle foreste di Beloveza. “Wow – pensò – magari Lui ne ha visto uno dal vero! Forse lo ha anche accarezzato!!!”. Un’altra volta, dal dentista, si mise in tasca un “Topolino” con alcune foto dei peluches… prodotti nella celebre fabbrica di Zhlobin! Quelle immagini gli rimasero scolpite nella memoria perché, per parecchio tempo a venire, le avrebbe associate a ciò che accadde subito dopo il “furto”: il dentista gli mise l’apparecchio, vero e proprio strumento di tortura moderno fonte di tanti dolori e imbarazzi. Oltre che di un sospirato sorriso… diritto!
La volta che Federico riprese in mano il suo speciale diario – si trattava di un quadernetto ad anelli con la copertina juventina – e sfogliò le pagine ritrovando le foto dei bielo-peluches e dei bisonti della foresta erano passati ormai quattro mesi, canini e incisivi iniziavano ad assumere un aspetto umano e… il bambino sconosciuto, “Lui” nella mente di Chicco, stava finalmente per arrivare.
Giovanni, Sonia e Federico avevano avuto dall’associazione che si occupava dell’organizzazione del viaggio un fascicoletto, in tutto otto pagine fotocopiate, in cui si trovava il minimo indispensabile per attaccare bottone e comunicare con gli ospiti: per qualche settimana, tutte le sere, a cena la tele rimaneva spenta e i tre tra un boccone e l’altro ripassavano: “ Ciao?” “Pokà, oppure privièt”.
“Arrivederci?”,” Do svidànija”;
“Buonanotte?”, “Spokòjnoj nòci”;
“Bello?”, “Krasìvyj”;
“Grande?”, “Bolsciòj”
“Nonna?” , “Bàbushka….
E così via, fino allo sfinimento. La mamma soprattutto sembrava avere una memoria di ferro e se la cavava benissimo.
Oltre al fascicolo, durante una di quelle sedute di russo ricevettero una telefonata con l’informazione che Federico attendeva: il bambino che avrebbero conosciuto di lì a poco si chiamava Kirill ed era nato a Zhlobin il primo maggio di undici anni prima.
Federico, grazie a quelle poche notizie, si fece un’idea più precisa del soggetto: Kirill, nome  spigoloso, doveva aveva certamente i capelli neri e un carattere tremendo, un vero testone, dal momento che era un Toro. Rifletté anche sul fatto che facilmente loro due si sarebbero presi a cornate, dal momento che il suo, di segno, era quello dell’Ariete... questa riflessione lo fece sorridere un poco.
Si avvicinava il momento dell’arrivo, Federico stava frequentando gli ultimi giorni di scuola e aveva ricevuto dalla mamma l’ordine perentorio di sgombrare qualche cassetto del suo armadio per fare spazio ai vestiti di Kirill. Lui così fece, covando in segreto anche un pizzico di gelosia, liberando gli spazi più alti del mobile, dal momento che l’ospite a quel punto nella sua testa aveva assunto le sembianze di un ragazzone robusto, sicuro di sé, taurino. “Kirill”, appunto.
Gli ultimi preparativi misero a dura prova la pazienza di Federico e del papà: Sonia sembrava un’invasata: "Ma sarò all’altezza? – ripeteva in continuazione come in una noiosissima nenia – La casa è abbastanza pulita? E se non gli piace quel che cucino? Ho comprato il dentifricio? E se si ammala mentre è qui? Se scappa e non lo troviamo più?” e via di seguito in una serie di domande più o meno assennate alle quali i due maschi di casa smisero presto di rispondere.
Alla fine, il giorno giunse. Era una domenica mattina, le famiglie che avrebbero accolto i dodici bambini – di cui solo cinque maschi, aveva notato Federico – si erano date appuntamento sul piazzale della Stoop, il supermercato del paese. Sapevano che l’aereo da Minsk era partito regolarmente, di lì a poco sarebbe arrivato il pullman. Chicco scrutava i visi degli altri, capendo senza difficoltà che quelli più rilassati appartenevano a persone abituate al procedimento, che già conoscevano il loro bambino e, dagli occhi lucidi, che non vedevano l’ora di riabbracciarlo. I più tirati, invece, con una specie di sorriso di plastica, erano i nuovi, come lui e i suoi. Fingevano noncuranza, dentro covavano il desiderio di darsela a gambe, combattuti tra la voglia di conoscere e finalmente abbracciare il loro piccolo ospite e la paura dell’ignoto. Nonostante tutto, lui si sentiva tranquillo, calmo, a suo agio… o almeno così credeva. Non appena una voce si levò dal gruppo per dire “Eccolo, stanno arrivando!” infatti, il suo cuore cominciò a pulsare all’impazzata e un intero branco di cavalli iniziò a galoppargli nel petto mozzandogli letteralmente il fiato.
Il pullman svoltò e dopo aver fatto manovra si fermò. Era a due passi da lui, dietro ai finestrini Federico intravide una serie di volti, indistinti per i riflessi del vetro. Le figure là dentro si mossero, alzandosi ordinatamente dai sedili, si misero in fila e… iniziarono a scendere. La prima che vide fu una bambina, sembrava veramente piccola, avrà avuto sì e no sette anni. Bionda, anzi biondissima,  con uno zainetto sulle spalle e l’aria completamente sperduta. Non appena scesa, una signora corpulenta le andò incontro strizzandola tutta e Federico la perse di vista. La seconda a scendere fu un’altra bambina, biondissima anche lei, di cui Chicco notò subito i bellissimi occhi azzurri, sgranati per l’emozione. Anche lei fu accolta immediatamente da un’anziana coppia che parlava abbastanza bene il russo. Poi fu la volta degli altri, altri due bambini, tre bambine che si tenevano per mano e non volevano mollarsi per niente al mondo, ostruendo il passaggio. In piedi dietro di loro, ad aspettare senza scomporsi che il groviglio umano si sciogliesse, c’era Kirill: non che Federico avesse alcuna dote telepatica, semplicemente quel bambino aveva in testa un vistoso cappello rosso con visiera e, per l’appunto, la scritta “Kirill” ricamata in nero. E lui che si era tanto arrovellato su come avrebbe fatto a riconoscerlo!
Siccome il cervello di Federico pareva essersi scollegato dalle gambe, che rimanevano inchiodate sull’asfalto, ci pensò il papà a farlo muovere in direzione di Kirill, con una spallata che quasi lo sollevò da terra. Inspiegabilmente quando i due si avvicinarono Sonia era già lì, e Chicco rimase convinto per tutta la vita che in quell’occasione sua madre avesse usato il teletrasporto. Non solo, gli si stava rivolgendo in russo con una certa dimestichezza della lingua! A pranzo Sonia avrebbe confessato di aver preso in gran segreto lezioni di russo per cinque mesi dalla “badante” della nonna Irene, mentre tutti la credevano al corso di ballo latino-americano. “Già mi credevate una povera pazza – avrebbe ammesso – figuriamoci se vi avessi detto del russo! Mi avreste preso in giro per un anno intero”. Infatti. Benché la scelta di Sonia si fosse rivelata utile, per un bel pezzo in casa le venne appioppato il simpatico soprannome di “bella balalaika”.
Comunque, Kirill adesso era lì per davvero. Federico, non sapendo bene che cosa fare, gli allungò la mano e lui, per stringergliela, appoggiò a terra il sacchetto e la borsa che aveva con sé. Si guardarono dritti negli occhi per un istante, Federico vide un ragazzino, alto poco meno di lui, con gli occhi e i capelli castani come i suoi, un po’ spaventato e goffo, proprio come lui. Per di più, dietro all’accenno di timido sorriso, Chicco vide balenare qualcosa che riconobbe all’istante: pazzesco, portava anche lui la macchinetta ai denti! Tutta l’ansia che si era accumulata durante quei mesi, in un momento si sciolse, Chicco se ne rese conto e realizzò finalmente che Kirill era solo un bambino.
I quattro salutarono velocemente il resto del gruppo, si sarebbe detto in una lingua inventata che ricordava vagamente l’italiano, il russo e l’inglese insieme. Ma forse anche il dialetto aveva il suo spazio.
Saliti in macchina, Federico e Kirill si trovarono vicini sul sedile posteriore, e inaspettatamente fu proprio il nuovo arrivato a rompere il ghiaccio: estrasse dal sacchetto un piccolo album e – francamente aveva dell’incredibile – si mise a leggere una per una le ordinate didascalie che stavano sotto a ogni fotografia: “Questo sono io con mia sorella Alina quando eravamo di sei e quattro anni; questa è la cucina di mia casa con frigorifero nuovo; qui sono in gita a Minsk con mia classe di scuola; questa casa di babushka in Ucraina”. Federico rimase a bocca aperta, tanto più che Kirill aveva letto ciò che era scritto in caratteri cirillici. Dal sedile davanti, il visino raggiante della mamma si girò cinguettando:”Avete capito vero, voi due testoni? Qualcuno si è preso la briga di trascrivere in caratteri cirillici queste frasi italiane, in modo che Kirill fosse in grado di leggerle e noi di capirle! Che idea geniale! Sicuramente sarà stata la sua mamma!”. “Da, màma” fece eco Kirill, che passò il resto del tempo a osservare con attenzione il panorama fuori dai finestrini, e quando scesero dalla macchina fece capire di avere una forte nausea. Tra mezze parole e gesti universali spiegò ai suoi ospiti che non era abituato a usare l’automobile e si sentiva sottosopra. Per esprimere quest’ultimo concetto mimò un assurdo rovesciamento dello stomaco che divertì moltissimo Federico e gli fece guadagnare un sacco di punti in simpatia. Sonia invece era già preoccupata al pensiero che Kirill potesse essere allergico a qualcuno dei farmaci antiemetici che stava pensando di somministrargli… Comunque, lo prese per mano, gli fece fare un rapido giro panoramico fuori e dentro la casa e poi lo affidò a Federico, che gli mostrasse il bagno e la camera e lo aiutasse a sistemare le sue cose nell’armadio. “Eccoci al dunque” pensò Chicco, e poi tutto filò liscio. Tanto per cominciare, si accorse che gli indumenti che Kirill stava tirando fuori dalla borsa erano più adatti all’autunno – se non all’inverno, e gli sovvenne il nome di Russia Bianca con tutto un panorama candido di neve – così, senza che nessuno glielo dicesse, decise di prestare al nuovo amico la sua seconda maglietta a maniche corte preferita, quella nera con il teschio sulla schiena, che tra le altre cose si abbinava perfettamente al cappellino. Poi lo invitò a cambiare le scarpe, gli pareva che potessero andare benissimo le infradito che aveva intravisto nel sacchetto, al posto degli scarponcini che calzava. Gli mostrò il suo letto, una brandina nuova comprata per l’occasione che lui e papà avevano pensato di sistemare sotto la finestra. Infine, seduto su quella stessa brandina, lo attese mentre si dava una rinfrescata in bagno. Il viaggio di Kirill, tra autobus, coincidenze, check in, volo e quant’altro era durato diciannove ore!
Poco dopo, di fronte a un piatto di lasagne fumanti, fu messo alla prova il sistema ideato da Giovanni per rendere meno difficoltosa la comunicazione: su ogni oggetto della cucina (stoviglie, posate, bottiglie, sedie e tutto il resto) aveva appiccicato due cartellini, con il nome corrispondente in russo e in italiano. La cosa funzionò benissimo, Kirill sembrava divertito e sorpreso per tutte quelle attenzioni. Ricambiò la cortesia sforzandosi di pronunciare “Bottiiia, tovanglia, corltello”.
Riuscì addirittura a far capire che da lui, a casa sua, non ci si ritrovava a mangiare tutti insieme per il pranzo, ma al mattino qualcuno cucinava qualcosa e poi durante il giorno chi aveva fame, mangiava. Per lo meno questo fu quel che Federico credette di aver capito.
Il resto della giornata trascorse senza intoppi particolari fino al momento del bagno. Erano circa le sei quando la mamma fece presente ai due ragazzi che sarebbe stato opportuno darsi una bella ripulita, indicò a Kirill la doccia - dush - e poi si diresse in cucina per preparare la cena. Circa venticinque minuti dopo le stanze della casa risuonarono di un urlo che non si sentiva così forte dai tempi della scuola materna di Federico: il papà, che stava sistemando l’antenna, corse a rotta di collo giù per le scale immaginandosi già una tragedia; Federico che era mezzo appisolato con un libro in mano si buttò letteralmente sotto al letto. Piano piano, ne sgattaiolò fuori e si avvicinò alla porta del bagno, dove la mamma stava ritta impietrita come una statua di sale; Chicco raccolse tutto il suo coraggio e guardò dentro anche lui: la schiuma aveva quasi raggiunto il soffitto, goccioloni rotondi d’acqua insaponata rotolavano giù da tutte le pareti rosa; il tappetino e gli asciugamani avevano tentato invano di assorbire tutta quell’umidità e apparivano come usciti dal ciclo del lavaggio intensivo. In mezzo a quella catastrofe, spuntava la testolina bagnata di Kirill.
Sonia, passata la crisi di nervi, contò fino a centodieci e poi, con il suo russo maccheronico ma convincente, spiegò al ragazzo che lavarsi non significa far esplodere il bagno e che per pulirsi adeguatamente non è necessario svuotare tre contenitori di bagnoschiuma interi. Kirill, dal canto suo, rispondeva “Da, da” a tutte le osservazioni, e si giustificò dicendo che il bagno di casa sua era molto più piccolo, che gli sarebbe piaciuto vivere tutta la vita dentro a quella vasca meravigliosa. Federico, che di norma considerava più che sufficiente fare la doccia una volta ogni quindici giorni, non afferrò il senso di quella conversazione, ma fu felice di vedere che dopo la sfuriata della mamma tutto si era messo al meglio.
Di questo episodio, i due ragazzi avrebbero riso tantissime volte nel corso del mese che seguì, quando sarebbe bastato pronunciare la mitica parola “myt’sja”, fare il bagno, per intendere una catastrofe cosmica.
In verità la maggior parte dei bagni, per tutto il mese la fecero non nell’ormai mitica vasca della stanza rosa, né tantomeno nella piscina comunale, dove il resto del gruppo bielorusso si recava quasi tutti i giorni con gli accompagnatori e l’indispensabile interprete. Loro due, preferivano le vecchie cave di Oleggio. Federico infatti riusciva a trovare sempre delle scuse meravigliose, del tipo: “Devo fare una ricerca sul germano reale”, oppure: “Non trovo l’ispirazione giusta per la tavola di educazione artistica; credo che solo la natura mi possa aiutare, sento che devo lavorare en plein air”, se non addirittura s’inventava di sana pianta: “Ho letto che respirare vicino alle foglie di carpini e querce rosse dimezza i tempi di decadimento degli elementi radioattivi penetrati nell’organismo umano”.
Visto che l’intesa tra quei due adolescenti un po’ svitati pareva consolidarsi di giorno in giorno, Sonia e Giovanni chiudevano un occhio, a volte anche le orecchie e: “D'accordo, allora vai pure, ma portati anche Kirill”, dicevano quasi all’unisono, davvero soddisfatti per la piega che quella situazione stava prendendo.
La loro meta preferita dunque era il Parco: Kirill aveva dichiarato di essere un abile campeggiatore, nonché esperto di fauna e flora, e ne dava prova continuamente. Dal canto suo Federico era affascinato da quel bambino fiero e un po’ ribelle che effettivamente, dopo esserci stato solo qualche volta, si orientava a meraviglia nel bosco e riconosceva i sentieri giusti meglio di lui che, si poteva dire, in quei luoghi ci era nato.
All’inizio di tutto c’era stato il nonno Umberto: qualche giorno dopo l’arrivo di Kirill, lo aveva invitato insieme a suo nipote a una gara di “cerca dell’oro” alla quale doveva partecipare in qualità di cercatore più anziano della provincia. Così, un sabato mattina, armato di pala, trula, asse di lavaggio e carriola - strumenti indispensabili per la raccolta del prezioso metallo – il ben assortito trio si recò sul greto del Ticino, vicino all’abitato di Cameri. Si diedero da fare fino a sera a setacciare sabbia, scandagliare gli argini, trasportare materiale, sciacquare… purtroppo tutta quella fatica non gli valse neppure una pagliuzza d’oro, comunque il divertimento fu assicurato, insieme ad una invidiabile abbronzatura. Quella sera, sdraiati sui letti, cotti e sfiniti, quei due ragazzi, a modo loro, si “dissero” molte cose. A Kirill il fiume era piaciuto tantissimo, gli ricordava il suo Dnepr e gli faceva sentire nostalgia di casa. Federico, che si accorse degli occhi umidi dell’amico, provò a tirarlo su di morale proponendogli una gita al fiume già per il giorno seguente. Così, quella domenica, da soli provarono e riprovarono i setacciamenti e i lavaggi di chili e chili di sabbia, ma niente. Le auree pagliuzze, come si dice, non le videro nemmeno col binocolo! Stufi dell’inutile attività, presero in considerazione l’idea di concentrare i loro sforzi alla ricerca di qualcosa di vivo, e che avrebbero sicuramente trovato: passarono ore e ore appostati dietro ai gelsi, sotto ai faggi, a volte anche sopra, in mezzo alle umide baragge a “cacciare” gli animali con la macchina fotografica. Scattarono foto di lontre, cicogne, svassi e martin pescatori; aspettarono per ore acquattati nei capanni di osservazione che si muovesse qualcosa e poi, all’improvviso, una mattina fortunata Federico immortalò il nobile volo di una grande poiana. “Certo - disse una volta a Kirill – potremmo stare qui un anno, ma il bisonte della Bielorussia col cavolo che lo fotograferemmo!”. Si ricordava ancora di quell’articolo sulle foreste di Beloveza letto dal parrucchiere, e Kirill annuì, facendo intendere che , effettivamente, quel tipo di animale da lui lo si trovava davvero, e senza nemmeno faticare troppo.
Fecero tuffi di ogni tipo alle vecchie cave, ormai trasformate in limpidi laghetti, dove alle volte si fermavano per tutto il pomeriggio con una scorta invidiabile di fumetti, Diabolik e Topolino soprattutto, che Federico leggeva instancabilmente a voce alta migliorando non poco l’italiano di Kirill.
Il massimo dei massimi però, si presentò davanti ai loro occhi la mattina che precedeva di pochi giorni la partenza di Kirill per la Bieolorussia: quel pazzo dello zio Gino infatti, per fargli un regalo, con materiale di recupero e pezzi vari mise insieme una fantastica bicicletta ammortizzata e super accessoriata adatta a percorsi estremi. Era blu elettrico, con il sellino e il manubrio arancioni. Quando il ragazzo la vide, parcheggiata sul vialetto di casa, e capì che era sua, non riuscì a spiaccicare niente se non uno strozzato “Vjelosipjèd! Spasìbo! Spasìbo!” e poi ci montò sopra. Dopo neanche dieci secondi era già per terra, con un ginocchio sbucciato e un bernoccolo in testa. Non aveva mai usato una bicicletta! Senza versare una lacrima, e sotto la stretta sorveglianza dello zio Gino che lo incitava e lo teneva – mamma Sonia osservava il tutto nascosta dietro le tende del soggiorno, con le dita incrociate e la valigetta del pronto soccorso a portata di mano – Kirill domò l’arnese meccanico e fu pronto per nuove avventure nella vallata del Ticino. Dopo i sentieri, furono le piste ciclabili a non avere più segreti per i due piccoli esploratori: a tutte le ore si vedevano sfrecciare due bolidi – uno rosso e uno blu – su e giù per i dossi e per i prati.
Più il momento della partenza si avvicinava, meno i due amici emettevano suoni articolati: il dispiacere dell’addio si faceva sentire con un fastidioso groppo in gola, il senso di strangolamento progressivo impediva di parlare. Naturalmente né l’uno né l’altro erano disposti ad ammetterlo, così gli ultimi giorni trascorsero quasi normalmente, benché più silenziosi.
Per l’ultima cena che avrebbero consumato insieme, Kirill addirittura si lanciò nella preparazione di un piatto tradizionale della cucina bielorussa: il “draniki”, ossia una saporitissima frittella di patate che ribattezzò “ alla Sonia” in onore della mamma di Federico, per ricambiarla di tutte le squisitezze che aveva preparato per lui durante quel mese.
Tempo dopo, al risveglio da quel sogno meraviglioso di uccelli plananti e voli sull’acqua, Federico chiese a sua madre di cucinargli proprio il draniki per pranzo, la sua mente era ancorata a quei bellissimi ricordi e anche il suo stomaco voleva la sua parte. Ripensando alle frittelle, alle corse in bici, ai tuffi, i suoi occhi ancora fissi sulla tazza della colazione gli rimandarono malinconicamente le immagini del giorno in cui Kirill era ripartito per la Bielorussia: davanti a quel pullman e a quell’autista che metteva fretta e incitava i bambini a salire, i due ragazzi non si erano detti niente, si erano solo stretti la mano, e guardati fissi negli occhi. Proprio come era successo all’arrivo. Eppure entrambi sapevano che da allora era cambiato tutto. Qualche ora più tardi, Federico aveva alzato gli occhi al cielo perché, secondo i suoi calcoli, l’aereo sarebbe dovuto decollare da Malpensa più o meno in quei minuti. Dal giardino di casa sua aveva salutato il primo aereo che vide passare: “Do svijdania, Kirill!” urlò senza minimamente preoccuparsi che qualche vicino potesse sentirlo. Non poteva sapere che Lui era proprio su quell’aereo, e che dietro all’oblò cercava di individuare la casa di quella simpatica famiglia italiana, seguendo finché fu possibile la striscia azzurra del Ticino che si snodava sotto di lui come un lento serpentone. Da lassù li salutò con la mano e fece appena in tempo a dare un ultimo sguardo al Monte Rosa: in quella giornata limpida e tersa assomigliava a un gigante, messo a difesa di quella bella pianura di cui aveva iniziato a conoscere qualche segreto. Dopo un istante, il suo pensiero volò alla sua sorellina, e ai suoi genitori, che già si figurava con il naso schiacciato sulla vetrata dell’ aeroporto, in attesa di riabbracciarlo.
Passarono alcuni giorni e Federico ricevette una mail dalla Bielorussia che diceva “Arrivato casa. Tutto bene. Grazie. Ciao”.
La vita di sempre ricominciò in fretta, come suggerito dalla mamma Chicco svolse tutti i compiti delle vacanze, e alla fine la scuola ricominciò. Tra lezioni, compiti in classe e intervalli i ricordi di quell’estate si affievolirono a poco a poco, senza perdersi mai del tutto.
A Novembre, il papà e la mamma iniziarono a insospettirsi notando le strane uscite pomeridiane del figlio: diceva di andare a giocare a pallone con i suoi amici, in oratorio, e ritornava a pezzi, infangato dalla testa ai piedi. Per quanto ne sapevano loro, il campetto della parrocchia era di cemento… La stessa cosa si ripeteva durante la settimana e anche nei week end. Dal momento che, ultimamente, anche le uscite del nonno Umberto avevano iniziato a moltiplicarsi - la scusa della briscola giù all’Acli non poteva reggere a lungo - e la sua vecchia Ford Fiesta ad essere insolitamente inzaccherata dentro e fuori, decisero di chiedere spiegazioni mettendo seduti nonno e nipote al tavolo della cucina: quello che ne seguì, fu un interrogatorio di terzo grado degno di un film poliziesco. Il nonno, messo alle strette, fu il primo a cedere. Quando si decise a spiegare ciò che lui e Chicco avevano architettato, gli bastò tirare fuori dalla tasca posteriore dei suoi jeans d’annata un sacchettino piccolo piccolo… Giovanni e Sonia ci misero un attimo a capire, poi l’illuminazione. Strinsero forte forte Federico, e mamma gli schioccò un bacio sonoro sulla guancia.
Federico si sentì sollevato: i suoi avevano capito e … approvato!
Andarono tutti insieme in posta per spedire il sacchettino all’indirizzo che Kirill aveva lasciato loro: il Natale si stava avvicinando e, anche se Federico sapeva che il suo amico, ortodosso, lo avrebbe festeggiato solo il sette di gennaio, voleva essere sicuro al cento per cento che ricevesse il dono in tempo.
Più o meno la stessa cosa era accaduta poche ore prima nell’ufficio postale di Zhlobin: pacchettino simile, invio in Italia, ad Oleggio, di una misteriosa scatoletta infiocchettata da parte di un bambino col cappello rosso.
Probabilmente i due regali, chiusi nelle rispettive stive, si sfiorarono in volo senza che nessuno lo sapesse e giunsero a destinazione in tempo.
La mattina del venticinque dicembre, Federico scelse per primo, tra tutte quelle scatole colorati, il pacchettino della posta aerea, che aveva depositato sotto l’albero ripromettendosi di resistere fino al giorno di Natale. Così aveva fatto, e con le mani tremanti per l’emozione lo scartò lentamente: dalla confezione azzurra sbucò una bellissima matrioska sorridente e con le tipiche guance rosse; dalla pancia della matrioska, che Federico aprì perché sperava di trovarci qualcosa… uscì una minuscola trecciolina. Kirill nel bigliettino allegato spiegava che, durante la gita scolastica al Parco Nazionale, aveva fatto per lui una cosa proibitissima: si era avvicinato ad uno dei recinti e, non appena gli insegnanti si erano allontanati un pochino… zac!, aveva strappato dalla coda di un bisonte un ciuffo di peli. “Che coraggio!” urlò Chicco, davvero commosso per quel gesto eroico che a lui era valso un vero e proprio amuleto di amicizia.
A migliaia di chilometri di distanza, la mattina del sette gennaio Kirill raccolse dal tappeto vicino alla stufa, dove lo aveva lasciato appena subito dopo la consegna del postino, il sacchettino arrivato dall’Italia. In religioso silenzio ne slegò il nodo e non ebbe bisogno di leggere il biglietto di Federico per riconoscerne il contenuto: si trattava di pochi, sudatissimi grammi di pagliuzze dorate. L’ultima volta che sua sorella, suo papà e sua mamma lo avevano visto piangere, era stato quando la pallonata del cuginetto Dimitrij gli aveva fratturato il setto nasale, quattro anni prima. Così rimasero in silenzio, chiedendosi quale fosse il senso di quella strana sabbiolina.
 

 

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