PREMIO "STORIA DI NATALE" EDIZIONE 2010


La giuria del premio “Storia di Natale”, il premio promosso da Interlinea edizioni e dalla Fondazione Marazza di Borgomanero, con vari patrocini e collaborazioni, ha diffuso in questi giorni le proprie decisioni: per l’edizione 2010 il primo premio della sezione senza limiti di età è stato assegnato a CARO BABBO NATALE di Anna Vivarelli con le illustrazioni di Antongionata Ferrari (pubblicato nella collana "Le rane piccole" di Interlinea). La giuria ha segnalato come particolarmente meritevoli i testi di Franca Monticello (L'asinello dal cuore grande) secondo classificato e di Silvia Savegnago Cole (Biladi) terzo classificato, pubblicati in questa pagina. I testi vincitori della sezione scolastica sono contenuti in un libretto distribuito gratuitamente durante la cerimonia e su richiesta.
 

secondo classificato
L’asinello dal cuore grande

di Franca Monticello

L’asinello era stanco. Aveva camminato per ore su strade polverose portando sul dorso Maria e il suo misero bagaglio.
Aveva fame ed aveva sete, sognava di trovare presto un luogo di ristoro, ma, ascoltando i discorsi dei suoi padroni, cominciava a perdere le speranze. Giuseppe, che gli camminava a fianco ed aveva i piedi che sanguinavano nel cuoio dei sandali, ogni tanto gli carezzava la testa, gli dava un buffetto su un orecchio, gli sussurrava: «Coraggio, amico mio, fra poco ci siamo» ma ormai l’aveva detto tante volte e, ad ogni nuova sosta, la delusione si ripeteva.
«Giuseppe, sono stanca, non ce la faccio più, e se non riuscissimo a trovare ospitalità?» chiedeva Maria con voce sempre più flebile ed affaticata.
Lei aveva camminato solo per brevi tratti, ma sentiva più di tutti la fatica perché la nascita del suo bambino era imminente.
«Fatti forza, Maria. Lo so, finora tutti i locandieri ci hanno respinto, ma un po’ più avanti troveremo altri alberghi e vedrai che ci sarà un posto anche per noi!»
Maria taceva; l’asinello si rianimava di speranza e riprendeva vigore nel cammino.
«Signore, quanta strada manca alla prossima locanda, per favore?» chiese Giuseppe ad un passante.
«Poca, amico. Appena girato l’angolo c’è la taverna del sole, è l’ultima del paese, ma non crederai di trovare posto, vero, con tutta la gente che è arrivata qua per il censimento?»
«Il Signore mi aiuterà».
La strada, poco più avanti, descriveva un’ampia curva e, subito dopo, c’era la locanda, ma, già da fuori si vedeva che era affollata. Il taverniere, un uomo grasso e rosso in viso, stava davanti alla porta e vide arrivare il terzetto: un asino striminzito e traballante, una donna in groppa, ripiegata su se stessa come se fosse malata, un vecchio dall’aria sfinita, sicuramente pessimi clienti.
«È inutile che ti fermi, amico, qui non c’è posto, tira diritto con la tua donna ed il tuo asino».
«Ti prego oste, siamo distrutti, mia moglie sta male, ci accontenteremo di qualsiasi angolo…»
«Hai sentito cos’ho detto? Non ho posto, vattene via» e rientrò sbattendo la porta.
Maria cominciò a piangere silenziosamente e Giuseppe non trovava più parole per consolarla. Avevano chiesto dappertutto, a tutti, nelle locande e nelle case, per pietà e nel nome del Signore, ma sembrava che a Betlemme non ci fosse misericordia.
Giuseppe, con dolcezza, trascinò un po’ più in là l’asino che se ne stava piantato immobile sulle zampe stanche, e lo fece sostare sotto la scarsa ombra di un albero contorto, a lato della via polverosa. Fece scendere Maria, l’aiutò a distendersi sul ciglio della strada e le si sedette vicino, appoggiando la schiena al fusto della pianta. Estrasse dalla bisaccia qualche provvista ed un otre d’acqua. Anche l’asinello bevve dalle mani a coppa di Giuseppe, poi mangiò un po’ d’erba rada.
Mentre Giuseppe carezzava il viso a Maria, senza più la forza di parlarle, lei si addormentò e, poco dopo, anche lui cadde in un sonno profondo.
Dopo qualche ora, quando il sole aveva attraversato ormai buona parte del cielo, Maria si svegliò e lanciò un’esclamazione di stupore. Giuseppe sussultò e si guardò intorno, sorpreso: l’asino non c’era più.
Dopo un breve riposo, l’asinello aveva riaperto gli occhi.
Davanti a lui, i suoi buoni padroni dormivano accoccolati per terra, come due pezzenti, con l’aria sfinita.
«Non è giusto» pensò. «Non è giusto che siano trattati così e che si trovino in questa miserabile situazione. Ogni bambino che nasce merita di trovare un comodo nido ad accoglierlo, non i ciottoli della strada».
Pensò a lungo a come avrebbe potuto essere d’aiuto e, infine, gli venne un’idea: «I miei padroni si sono rivolti sempre a delle persone», rifletté, «senza avere nessuna solidarietà da parte loro. E se io provassi, invece, a chieder aiuto agli animali? Sono miei fratelli e chissà, forse potrebbero indicarmi una soluzione!»
Decise di mettere subito in atto il suo progetto: trotterellando piano, per non svegliare Giuseppe e Maria, si allontanò da loro e, seguendo il suo istinto, si inoltrò nella campagna brulla.
Camminò a lungo in mezzo alla polvere, ai sassi, all’erba rada, si inoltrò per viottoli appena tracciati e, finalmente, gli arrivò agli orecchi un coro di belati.
«Finalmente!» pensò l’asino, fiducioso. «Non mi poteva capitare di meglio! Ci dev’essere un gregge qui vicino e le pecore, si sa, sono animali mansueti, dall’animo tenero. Amano e proteggono i loro agnellini, non potranno rifiutare l’aiuto a un bimbo che sta per nascere».
Fatti pochi passi, arrivò in vista di un recinto di legno che racchiudeva un gruppetto di pecore. Appena si avvicinò, alcune di loro gli si fecero incontro, curiose, subito imitate da tutte le altre, in un coro di belati.
«Salute a voi, buone pecorelle!» le salutò, e raccontò loro la storia di Maria che non aveva un posto dove partorire e di Giuseppe che soffriva tanto perché non riusciva a risolvere il problema.
«Sono certo che voi comprenderete», disse, «anche voi siete mamme e un cuore di mamma si riconosce subito per la sua generosità.
Le pecore erano visibilmente commosse e pronte a dargli tutto il loro appoggio.
«Certo, ma certo, sicuro che aiuteremo i tuoi padroni!» assicurò la pecora più lanosa, forse a capo del piccolo gregge «Qui c’è un sacco di posto e noi saremo ben contente di offrire a Maria e Giuseppe il nostro latte fresco e la nostra lana per riscaldare il piccino. Corri, vai subito a chiamarli e portali qui!»
L’asino era al settimo cielo per la gioia e si stava profondendo in mille ringraziamenti quando, dal nulla, si materializzò un grosso cane nero che, abbaiando come una furia, si avventò contro la staccionata.
L’asino sobbalzò per lo spavento e le pecore, terrorizzate, si dispersero in un istante.
«Vattene via, asino forestiero!» latrò il cane, minaccioso. «Non hai il diritto di stare qui, né di parlare alle pecore di cui io sono responsabile. Sparisci subito e non farti più vedere da queste parti o ti farò assaggiare i miei denti aguzzi!»
Al povero asino non rimase che abbassare le orecchie e riprendere, sconsolato, il cammino.
«E adesso», pensava, «dove andrò a cercare aiuto? Non si fanno tanti incontri, in questa landa deserta!»
Camminò ancora a lungo, tendendo gli orecchi per percepire eventuali rumori e annusando l’aria alla ricerca di eventuali odori e, finalmente, sentì un lontano, fitto chiacchierio.
Allungò allora il passo, finché raggiunse l’aia di una fattoria. Proprio davanti all’ingresso, un capannello di galline chiocciava animatamente, razzolando. L’asino si fermò educatamente in disparte ad aspettare che finissero di disquisire su chi avesse deposto l’uovo più grosso quella mattina.
Appena una lo vide, lo indicò alle altre e tutte si zittirono perché quelli erano discorsi privati da non far sentire agli estranei.
«Non ti abbiamo mai visto da queste parti, asino» lo apostrofò la gallina più pennuta. «Chi sei?»
L’asinello si presentò e, di nuovo, raccontò la triste storia dei suoi padroni, Maria e Giuseppe, che non avevano un posto dove far nascere il loro bambino. Le galline si intenerirono e ripresero a chiocciare forte, come tante comari, proponendo ciascuna una soluzione diversa.
Alla fine, fu la solita a parlare: «Vai a chiamare i tuoi padroni» disse «e accompagnali qui. Il pollaio è grande e noi riserveremo loro il posto più comodo, daremo loro le nostre uova per sfamarsi e, quando il bambino sarà nato, gli offriremo le nostre penne più morbide per scaldarsi».
L’asino non stava in sé dalla felicità e cominciò a fare profondi inchini alle galline e a ringraziarle una ad una, ma, all’improvviso, dal nulla comparve un gallo sbruffone che, capita la situazione, montò su tutte le furie e, sbatacchiando cresta e bargigli, prese a gridare: «Nessuno deve entrare qui! Nessuno deve parlare con le mie galline! Io sono il loro capo, io ho la responsabilità! Le galline sono tutte mie e devono badare solo a me!»
Le povere bestie, spaventatissime, in un lampo si dispersero per il cortile e l’asino rimase solo, di fronte al gallo infuriato che lo minacciò: «Asino molesto, vattene subito da qui e non farti mai più rivedere nei dintorni, o ti farò assaggiare il mio becco appuntito».
Per la seconda volta, l’asinello, deluso e amareggiato, dovette allontanarsi con la coda tra le zampe.
Erano ormai passate delle ore da quando aveva lasciato i suoi padroni; alzò gli occhi al cielo e si avvide che il sole aveva camminato tanto, verso occidente.
«Maria e Giuseppe si saranno di certo ormai svegliati» pensò la buona bestia. «Chissà cosa penseranno non trovandomi più! Magari che li ho abbandonati anch’io! Devo tornare subito da loro, anche se a mani vuote».
Riprese quella che, secondo lui, era la giusta direzione, ma, ben presto, si avvide che il sentiero imboccato non era lo stesso che aveva percorso all’andata.
«Spero di non essermi perso» rifletté, guardandosi intorno. «Non avevo mai visto questo albero, e nemmeno queste grosse pietre, e nemmeno la povera casupola di legno che sta laggiù». La raggiunse animato da una nuova speranza e si fermò davanti alla porta socchiusa ad ascoltare l’incessante borbottio che proveniva dall’interno.
Sbirciò e vide un vecchio bue che ruminava e brontolava tra sé.
«Buon bue!» chiamò l’asinello, ma non ebbe risposta.
«Buon bue!» ripeté alzando un po’ la voce, ma quello continuò imperterrito a ruminare.
«Buon bue!» ragliò forte e, finalmente, il vecchio animale voltò la testa e chiese: «Qualcuno mi ha chiamato?»
Strizzò gli occhi e li fissò sull’estraneo che si era introdotto nella sua stalla.
«Chi sei?» gli chiese. «Mi sembri un asino. Che cosa vuoi?»
Fu un’impresa per il nostro asinello spiegare al bue la situazione dei suoi padroni, perché l’animale era quasi completamente sordo e, a ogni parola, chiedeva: «Come? Che
cosa hai detto? Puoi ripetere?»
Alla fine, quando finalmente gli fu tutto chiaro, si dichiarò assolutamente disponibile ad aiutarli, anzi, addirittura entusiasta.
«Vai di corsa a chiamare Maria e Giuseppe» disse. «E accompagnali qui. In quell’angolo c’è una vasca piena d’acqua, sul pavimento c’è della paglia pulita e, quando il bimbo nascerà, sarò ben felice di offrirgli come culla la mia mangiatoia. Io e te veglieremo su di lui e potremo anche riscaldarlo con il nostro fiato. Io soffro tanto la solitudine, non mi sarebbe potuta capitare una cosa migliore. Finalmente avrò una famiglia. Vai, svelto!»
All’asinello sembrava di volare per la felicità mentre, improvvisamente svanita ogni stanchezza, correva a chiamare i suoi padroni.
La direzione, per fortuna era giusta, infatti li incontrò di lì a poco: Giuseppe sosteneva amorevolmente Maria ed insieme arrancavano per la strada, senza meta.
Quando lo videro, non lo sgridarono per essersi allontanato, anzi, Giuseppe gli gettò le braccia al collo e lo ringraziò di essere tornato e, quando seppero che proprio l’asinello aveva trovato loro un rifugio, si sentirono grati e felici.
Raggiunsero la capanna e lì, dopo poco, Maria diede alla luce il suo bambino, assistita da Giuseppe.
L’asino ragliava di felicità, mentre il bue piangeva come una fontana per la commozione. Anche se quasi sordo, gli sembrava di sentire una musica celestiale e, anche se quasi cieco, gli pareva che all’improvviso la stanza fosse inondata di luce.
Non era un’impressione: fuori della sua capanna, due angeli biondi suonavano una ninna nanna dolcissima e, sopra il tetto, brillava una stella cometa.
 

terzo classificato
BILADI

di Silvia Savegnago Cole

Faceva freddo in Italia, Hamina lo sentiva bene. Il freddo le gelava il naso, le pizzicava gli occhi e le appannava il fiato.
La mamma l’aveva coperta con cura: cappello, sciarpa, giaccone e scarpe pesanti. Hamina non aveva mai dovuto portare tanta roba addosso – nel suo paese faceva caldo anche d’inverno – e le sembrava di essere goffa e lenta come gli astronauti in TV.
Stavano camminando per strada, sul marciapiede; la gente correva avanti e indietro, ogni tanto urtava
la bimba senza accorgersene. C’era chi si fermava a chiaccherare, ma anche le parole sembravano scivolare via per la fretta.
I negozi erano tutti illuminati a festa. I
l fratellino ne era incantato e si attardava davanti alle vetrine premendoci il naso contro per guardare meglio.
Erano luci forti, che non scaldavano. Colpivano gli occhi come i rumori aspri del traffico, che rintronavano le orecchie.
Finalmente arrivarono a casa, la nuova casa.
La mamma portava le borse della spesa e Hamina cercava di tirarsi dietro il fratellino, che si era fermato davanti al negozio allangolo.
«Sbrigati!» gli disse Hamina. «C’è l’ascensore da prendere!»
Il bambino arrivò di corsa, sarebbe stato in ascensore tutto il giorno, su e giù come una giostra. E che risate quando la porta si apriva da sola, come per magia!
Si fecero stretti stretti per lasciare salire una mamma con la sua bimba. Mamme e bimbe si guardarono e si sorrisero mentre il fratellino si alzava in punta di piedi per schiacciare il secondo bottone.
Uscirono sullo stesso piano, l’altra mamma le invitò a gesti a entrare per la merenda. Che casa strana avevano, con i mobili alti e tanti spigoli. Però era buono il tè, anche se mancava la menta. Ed erano buonissimi i biscotti, con il buco nel mezzo.
Il fratellino trovò subito un autobus da spingere, con gli omini che si potevano mettere e togliere.
L’altra bimba disse indicandosi: «Paola». Era il suo nome.
«Baula" ripete` Hamina. Paola si mise a ridere scuotendo il capo, «PA-O-LA» disse piu` lentamente. Anche Hamina rise perché le sembrava di aver detto esattamente la stessa cosa.
Ora era il turno di Hamina. «HA-MI-NA» disse la bimba. «Amina» sorrise Paola. «No, no» fece Hamina e, per far capire a Paola come bisognava dire, la portò davanti a una finestra che cominciò ad appannare con il fiato. «HA HA» facevano le due bimbe, creando nuvolette, «HA HA» e ridevano a piu` non posso.
«Vieni, vieni» le fece Paola con la mano e andarono a giocare nella sua cameretta. C’erano tantissimi giochi!
Su un tavolo d’angolo stava a prima vista ciò che Hamina paragonò a un paesaggio: un fiume di carta argentata fra due rive verdi di palme, pastori con i loro greggi, casupole bianche, un rifugio di roccia con una mamma, un papà, un bimbo piccino, una mucca e un asino. Hamina accarezzò il paesaggio con la mano e mormorò: «Biladi». Ma perché Paola aveva un gioco che le ricordava tanto il suo paese, c’era già stata? Lo conosceva? La bimba si girò verso Paola con un largo sorriso ed esclamò «Biladi!»
Paola rispose «PRE-SE-PE».
In quel momento si affacciò alla porta della cameretta il papà di Hamina. A casa non aveva trovato nessuno, aveva teso l’orecchio e aveva capito che i suoi bimbi erano ospiti della famiglia accanto. «Hamina, dobbiamo andare a...» ma la bimba lo interruppe: «Papà, papà, guarda: il mio paese!» e gli fece una sfilza di domande, tutta emozionata.
«D’accordo, d’accordo, mentre andiamo a casa ti spiego» rispose papà. Ringraziarono e si salutarono. Il papà di Hamina aveva imparato bene l’italiano nell’albergo dove lavorava e la conversazione fra i grandi scorreva più facilmente. Passando davanti all’ascensore incrociarono il papà di Paola, che stata rientrando dal lavoro. I due papà si fermarono un momento per presentarsi e Hamina colse, fra le tante parole incomprensibili, quella parola nuova – presepe – che le aveva insegnato Paola poco prima.
Il papà fece in tempo a togliersi il giaccone e a sedersi su una sedia. Hamina gli volò sulle ginocchia con le orecchie tese: «Tanto tempo fa nacque in un piccolo paese poco più su del nostro un bambino di nome Gesù...»
«Perché il papà e la mamma gli permettono di tenere gli animali in casa? Voi non mi avete mai lasciato dormire con gli animali» interruppe Hamina.
«Hamina, ascolta. Era Gesù che dormiva nella casa degli animali, non viceversa, perché i suoi genitori avevano dovuto fare un viaggio e il loro bimbo era nato lungo la strada. L’unico riparo che mamma e papà avevano trovato era quella grotta abitata da una mucca. E visto che la notte era fredda, loro erano poveri e non avevano nulla per riscaldare Gesù...»
«Gli hanno messo vicino gli animali per tenerlo caldo!» disse Hamina tutto d’un fiato.
«Quando Gesù diventò grande fece tante cose buone e disse tante cose belle. In Italia ancora oggi la gente va nelle chiese per ascoltare quello che lui ha detto e fatto e una volta l’anno ricordano la sua nascita…»
«Con il paesaggio!» interruppe di nuovo la bimba.
«Quel paesaggio si chiama presepe» concluse papà.
Hamina era nel suo lettino. Anche se aveva tre coperte, sentiva freddo. Pensò al piccolino nella grotta e mormorò, prima di addormentarsi: «Domani devo portare a Paola una copertina per Gesù».
L’indomani i due bimbi non vedevano l’ora che arrivasse papà: aveva promesso di portarli al parco giochi! Il papà arrivò che era ancora chiaro: «Svelti bimbi, preparatevi, che il sole sta già andando a nanna!»
Prima di infilare la porta dell’ascensore la mamma li richiamò. Aveva preparato un cestino di dolci al miele da portare ai vicini. C’era anche un piccolo ritaglio di stoffa azzurra a cui Hamina aveva fermato il risvolto con due punti di filo: era la copertina per Ges
ù.

Il fratellino suono` il campanello e la mamma di Paola venne ad aprire. Paola fu contenta di vedere i due bimbi. Le piacque immensamente la copertina azzurra e andò subito a metterla addosso a Gesù. Tornò di volata alla porta con due pacchettini in mano: due paia di guanti, nuovi nuovi! Un paio rosso per il fratellino e un paio blu per Hamina. E chiese al papà di spiegare che quelli erano guanti fatti apposta per giocare con la neve, dentro non si bagnavano e le mani rimanevano calde e asciutte. «Vieni con noi» le disse Hamina a gesti, ma Paola non poteva seguirli al parco quel pomeriggio perché stava aspettando i nonni. I bambini si salutarono.
Hamina si divertì un mondo al parco giochi. Lei e il fratellino non smisero un momento di correre, e il papa` dietro di loro. «Almeno cosi` ci teniamo caldi» pensò papà.
Faceva freddo in Italia, Hamina lo sentiva bene, anche nel suo lettino. Quella sera si ricordò dei guanti nuovi di Paola e se li infilò. Stava già meglio, sotto le tre coperte, e il naso infilato fra le mani guantate. «Chissà che odore ha la neve...» penso` Hamina mentre scivolava nei sogni.

 

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