PREMIO "STORIA DI NATALE" EDIZIONE 2011


La giuria del premio “Storia di Natale”, il premio promosso da Interlinea edizioni e dal Comune di Ghemme, con vari patrocini e collaborazioni, ha diffuso in questi giorni le proprie decisioni: per l’edizione 2011 il primo premio della sezione senza limiti di età è stato assegnato a Salvataggio a mezzanotte di Bruno Tognolini (pubblicato nella collana "Le rane piccole" di Interlinea e illustrato da Pia Valentinis). La giuria ha segnalato come particolarmente meritevoli i testi di Carolina Pernigo (La farfallina bianca) secondo classificato e di Marinella Vella (Buon Natale, Lucky) terzo classificato, pubblicati in questa pagina. I testi vincitori della sezione scolastica sono contenuti in un libretto distribuito gratuitamente durante la cerimonia e su richiesta.
 

secondo classificato
la farfallina bianca

di Carolina Pernigo

Tutte le notti Lucia si svegliava chiamando la mamma. Aveva solo tre anni, non capiva che la mamma non sarebbe più tornata. Clara invece di anni ne aveva sette e conosceva la verità.
Due mesi prima, mentre guardava un cartone animato alla televisione con la sorellina, aveva sentito squillare il telefono. Aveva visto la nonna rispondere, mettersi una mano sulla bocca e sedersi pesantemente su una sedia. Aveva la faccia sgomenta e gli occhi rivolti al pavimento. Le era andata vicina, ma lei non riusciva a guardarla. Aveva visto anche tutte quelle persone vestite di nero che giravano per casa e la fissavano in modo strano.
Una vecchia, dopo essersi presentata come la prozia Lina (ma cos’era esattamente una prozia?), le aveva carezzato i capelli chiamandola “povera bambina”. Clara non riusciva a capire: non era affatto povera, aveva tanti giocattoli, una casa grande e persino un cincillà. Aveva chiesto spiegazioni, ma quella signora si era messa a piangere. Era stato allora che la nonna aveva fatto sedere lei e Lucia sul divano e aveva detto loro che la mamma era andata in cielo.
Lucia aveva chiesto “E quando torna?”, ma la nonna non era riuscita a rispondere, l’aveva presa in braccio e abbracciata stretta, finché la piccola  non si era divincolata per correre a giocare nella sua stanza. Clara l’aveva seguita mestamente: lei sapeva che, quando si va in cielo, non si torna più.
Era stata proprio la mamma a spiegarglielo l’anno precedente, quando il micio di casa, Romeo, era stato investito dal vicino che entrava con l’auto in cortile. Clara adorava Romeo, era lei che gli dava da mangiare e lo spazzolava, la mamma gliel’aveva comprato solo a condizione che se ne occupasse personalmente (in quell’occasione, la bambina aveva imparato una parola nuova, “responsabilizzare”, ma era troppo lunga e difficile, e non l’aveva mai più usata). Quando il vicino si era presentato da loro con un fagotto in braccio, scusandosi ripetutamente, dicendo che proprio non l’aveva visto, Clara aveva iniziato a piangere disperatamente e non aveva smesso per ore.
Allora la mamma si era seduta accanto a lei sul letto e le aveva spiegato che in cielo c’era un angolino anche per i gatti e che di sicuro Romeo sarebbe stato bene e avrebbe avuto topini di gomma da rincorrere e latte e croccantini a volontà. Lei però era inconsolabile: non le andava bene che il suo micino stesse in cielo, lo voleva avere di nuovo con sé.
La mamma le aveva sorriso, carezzandole i capelli: “Questo non è possibile,” le aveva detto “una volta che sei andato in cielo non puoi più tornare. È come se il tuo corpo si fosse spento: non esiste un modo per riaccenderlo”.
“E allora non lo vedrò mai più?”, aveva chiesto tra i singhiozzi Clara.
Ma la mamma, con quella voce dolce che usava di solito per consolarla, l’aveva rassicurata: “Ma certo che lo vedrai ancora: tutte le volte che per la strada vedrai un gattino che gli assomiglia, nero come lui, con i suoi stessi occhietti vispi, saprai che lui dal cielo ti sta mandando un messaggio.”
“Un messaggio per dirmi cosa?”
“Che ti vuole ancora bene, che si ricorda di te e che gli manchi”.
Clara si era fatta pensosa: “E quando vanno in cielo le persone cosa succede? Anche loro mandano messaggi?”.
“Io credo di sì, tesoro mio.”
“E come fanno?” “Dipende… Chi sale in cielo non si dimentica mai di chi è rimasto sulla terra. Ognuno ha un proprio linguaggio, un proprio modo di apparire, un segno per farsi riconoscere.”
“Sì, ma quelli che rimangono giù come fanno a sapere qual è il segno per loro? Cosa succede se si distraggono e non lo vedono?”
“L’amore ha mille occhi e mille orecchie, Lala. E tanta pazienza. Quando, un giorno, andrò in cielo anch’io...”
“No, mamma, tu non andrai mai in cielo!”
“Non subito, tesoro, non presto, ma un giorno, quanto tu e la tua sorellina sarete abbastanza grandi per cavarvela da sole e io sarò una vecchietta senza denti…”
“Come la nonna?”
“Ancora più vecchia della nonna! Quando sarò vecchissima, così vecchia che non potrò mangiare che semolino con la cannuccia…” – rideva la piccola Clara, non sospettava che di lì a un anno questa conversazione sarebbe diventata all’improvviso tanto importante – “… quel giorno io me ne andrò in cielo e da lì inizierò a vegliare sulle mie due bellissime figlie e manderò loro messaggi pieni di tutto il mio amore e, se la prima volta saranno distratte, continuerò a mandargliene finché non se ne accorgeranno!”
“E che forma avranno i tuoi messaggi?”.
La mamma era rimasta in silenzio, assorta, poi a un tratto si era illuminata: “Una farfallina bianca! Di quelle piccole, che in primavera volano sui prati. Ogni volta che ne vedrete una, sarà il mio messaggio d’amore per voi”.
Quella sera, Clara si era addormentata pensando al suo Romeo e alle farfalline primaverili. Lucia all’epoca era troppo piccola, non aveva mai sentito questa storia e adesso, ogni notte, piangeva e chiamava la mamma. Clara si infilava nel suo letto e le sfiorava piano la fronte finché non si riaddormentava, come per scacciare con una carezza tutti i suoi incubi.
Al mattino, mentre si adoperava per farle due codini perfettamente simmetrici, le raccontava storielle divertenti per distrarla, ma la piccola chiedeva ripetutamente quando sarebbe tornata la mamma.
Clara non capiva perché la nonna non le potesse dire la verità. A scuola la maestra ribadiva spesso l’importanza della sincerità e la nonna stessa in passato aveva sentenziato che le bugie hanno le gambe corte (cosa poi questo volesse dire, Clara non l’aveva mai capito del tutto. D’altro canto, non aveva mai capito neppure perché non si dovesse guardare in bocca al cavallo Donato. Come se a qualcuno fosse mai venuta voglia di guardare in bocca a un cavallo, poi!). Eppure adesso proprio lei continuava a raccontare alle nipoti di un lungo viaggio nei cieli. In questo modo non faceva che confondere Lucia, che inizialmente si illuminava e iniziava a cinguettare ogni volta che vedeva passare un aeroplano, e poi si era convinta che la mamma stesse facendo un tour nei cieli sulla slitta di Babbo Natale.
Clara non diceva niente, perché Lucia era una bimba vivace, solare, già chiacchierona, e lei non aveva voglia di vederla cupa e triste. Così i giorni passavano, il “viaggio” della mamma si prolungava sempre più e il Natale si avvicinava.
E Clara era sempre più arrabbiata. Non avrebbe saputo spiegare il motivo, ma tutto la innervosiva, tutto la faceva scattare. Rispondeva male alla nonna, aveva smesso di fare i codini a Lucia e spesso la trattava male, facendola piangere. Sentiva di odiarla un pochino, perché viveva serenamente, aspettando il ritorno della mamma che invece non sarebbe tornata più, e nel frattempo era tutta impegnata con i suoi stupidi giochi e i suoi stupidi cartoni animati. Quanto a lei, da quel giorno di due mesi prima non guardava più la televisione: nella sua mente, quella scatola non conteneva più soltanto immagini, ma anche squilli del telefono, brutte notizie e vecchie che piangono. E bambine che rimangono sole. Sì, la odiava, odiava la televisione, molto più di sua sorella Lucia. Ed era arrabbiata anche con la nonna, che le invitava a scrivere una letterina a Babbo Natale come se Babbo Natale potesse davvero renderle felici con qualche regalo. Quello che voleva Clara, Babbo Natale non glielo poteva dare. Rivoleva la sua mamma. Anche se era un po’ arrabbiata anche con lei: cosa le era saltato in mente di andarsene in cielo? Le aveva assicurato che ci sarebbe andata quando lei e Lucia fossero state grandi e in grado di cavarsela da sole, ma loro erano ancora piccole, avevano ancora bisogno della mamma, e invece lei era partita lo stesso.
E che dire poi dei messaggi? Aveva promesso di mandare mille messaggi pieni d’amore e per due mesi Clara era stata sempre attentissima. Passava ore alla finestra, fissando il cortile, e quando andava a scuola si guardava intorno costantemente, per essere sicura di non perdersi il segno che le avrebbe di certo mandato la mamma. E invece niente: non uno straccio di farfallina bianca. D’altra parte era inverno, persino lei sapeva che le farfalle d’inverno non ci sono. Allora la mamma le aveva mentito e lei questo non poteva accettarlo né perdonarlo.
La rabbia le cresceva dentro, si accumulava, spesso era tanto intensa che la bambina doveva prendere un cuscino e sbatterlo con forza sul letto, più e più volte, finché non si sentiva stanca e svuotata. E poi un giorno, il venti di dicembre, non era riuscita a trattenersi ed era esplosa. Lucia aveva chiesto alla nonna se la mamma sarebbe tornata per Natale, e lei le aveva gridato contro che era una stupida, che la mamma non sarebbe tornata mai più, che era morta e basta. Per un attimo, il tempo si era fermato. Come se tutto scorresse al rallentatore, Clara aveva visto lo sguardo sconvolto della nonna, la smorfia sulla bocca di Lucia, aveva sentito la voce della televisione accesa rombarle nelle orecchie, distorta e grottesca. Poi tutto si era rimesso in movimento velocemente, la nonna si era avventata su di lei e le aveva dato uno schiaffo, di quelli duri, con lo schiocco, che ti fanno bruciare le guance, mentre Lucia aveva iniziato a urlare a squarciagola. Clara era corsa in camera sua sbattendo la porta, si era gettata sul letto e tirata il piumino fin sopra alla testa.
All’improvviso, la rabbia era passata. Si sentiva solo infelice e in colpa. Lucia era così piccola, come aveva potuto dirle una cosa del genere, e in un modo simile, poi? La mamma le diceva sempre che doveva essere buona con Lucia, che, in quanto sorella maggiore, avrebbe dovuto sempre proteggerla e darle il buon esempio. E invece… bell’esempio le aveva dato. Ma anche lei, Clara, aveva solo sette anni, anche lei era rimasta sola, anche lei avrebbe desiderato più di ogni altra cosa al mondo che la mamma tornasse a casa per Natale. O che almeno le mandasse uno di quei messaggi che le aveva promesso, per farle capire che anche se non era lì con loro non si era dimenticata delle sue bambine e continuava a guardarle dal cielo.
Sotto le coperte, Clara piangeva in silenzio, soffocando i singhiozzi nel cuscino. In quel momento, aveva sentito una vocina flebile: “Lala?”. Lucia si era avvicinata al letto e cercava di infilarsi sotto le coperte per raggiungerla. Clara, asciugandosi gli occhi e il naso con la manica, aveva sollevato il piumino quel tanto che bastava per farla passare, dopodiché l’aveva calato nuovamente sulle loro teste. Stringendosi alla sorella in quel piccolo nido buio e caldo, la bambina per la prima volta da mesi si sentiva meno sola, meno abbandonata. Qualcosa le era rimasto, in fondo. A Lucia che le chiedeva con voce tremante se era vero che la mamma era andata via per sempre, Clara aveva raccontato la storia delle farfalline bianche. “Ma dove sono?” voleva sapere la piccola.
“Non lo so, ma arriveranno” aveva risposto Clara, per la prima volta fiduciosa. E la mattina successiva aveva avuto un’idea: se era impossibile che la mamma tornasse, bisognava almeno che la piccola Lucia fosse certa che stava ancora vegliando su di loro. Visto che tutte le preghiere fatte alla sera, prima di dormire, non avevano finora avuto risposta (il che era comprensibile, perché il cielo era tanto lontano, e la voce di Clara tanto sottile) bisognava andare dritti alla fonte. Se gli avesse spiegato come stavano le cose, Gesù bambino – che non era tanto più piccolo di Lucia e di sicuro era tanto buono, lo dicevano tutti – di certo l’avrebbe ascoltata. Ogni giorno, mentre tornava da scuola, Clara vedeva il grande presepio allestito in piazza, sul sagrato della chiesa. Ogni giorno si fermava a guardare la statua della Madonna, con quel bel velo azzurro e gli occhi buoni, e san Giuseppe, con il suo bastone da falegname. Ogni giorno scrutava la mangiatoia piena di paglia, sempre vuota. Quando aveva chiesto alla nonna perché non ci fosse il bambino dentro, lei le aveva risposto che era ancora presto, che Gesù sarebbe arrivato la sera della Vigilia. E la sera della Vigilia Clara e la sorellina avrebbero dovuto essere lì, per rivolgergli la loro richiesta.  Sicuramente dal cielo il vero Gesù sarebbe stato ben attento a cosa succedeva alla sua statuina sulla terra e le avrebbe sentite chiaramente.

Il ventiquattro dicembre, dopo cena, mentre la nonna guardava il concerto di Natale alla televisione e già la sua testa iniziava a ciondolare, le palpebre a calare, Clara aveva vestito Lucia. Le aveva messo il maglione pesante, la giacca, la sciarpa, il berretto col pon pon che la mamma le aveva fatto ai ferri l’inverno precedente.
“Dove andiamo?” aveva chiesto la piccola.
“A cercare le nostre farfalline bianche”, le aveva risposto trascinandola silenziosamente verso la porta d’ingresso. Era importante che la nonna non si accorgesse di niente, perché non le avrebbe mai lasciate andare. Sentendola russare sulla poltrona, Clara aveva riso piano ed era sgusciata con la sorella fuori dalla porta d’ingresso, dopo aver sfilato le chiavi dalla toppa. Per fortuna la chiesa non era lontana. Bastava seguire la strada per qualche minuto e sperare di non incontrare nessuno. All’improvviso alla bambina venivano in mente tutte le raccomandazioni dei grandi, tutte le storie su quei cattivi sconosciuti che ti offrono le caramelle e ti rapiscono e non ti lasciano più tornare a casa. Iniziava ad avere un po’ di paura e c’era tanto freddo. E cosa avrebbe fatto se neanche Gesù bambino l’avesse ascoltata? La piccola Lucia si stringeva al suo fianco, stranamente taciturna. A un certo punto però aveva alzato la manina grassoccia a indicare un punto davanti a loro e aveva bisbigliato “Eccolo!” con un tono pieno di meraviglia. E in effetti, a pochi metri di distanza, in una mangiatoia illuminata, giaceva il bambinello appena nato, tutto nudo, salvo un piccolo panno bianco che gli copriva il pancino.
“Ma non avrà freddo?” aveva chiesto Lucia.
“Ma no, ci sono il bue e l’asinello che lo scaldano”, aveva risposto meccanicamente Clara. “Ma sono finti”
“Anche lui è finto, sono solo statue!”
“Ma lui è il bambin Gesù!”, aveva ribattuto Lucia, stizzita per la sconsideratezza della sorella, a cui voleva tanto bene, ma a che a volte non capiva proprio niente, neanche le cose più elementari. Allora la piccola si era tolta la sciarpa e, sgusciando dietro il recinto del presepe, l’aveva usata per coprire amorevolmente il corpicino nella paglia. Poi, dopo aver sfiorato le labbra con la punta delle dita, aveva deposto un bacio sulla fronte del bimbo ed era corsa via, per tornare dalla sorella. Clara aveva iniziato a ridacchiare, chiedendosi cosa avrebbe pensato il parroco il mattino seguente nel trovare Gesù avvolto in una sciarpa rossa con le renne. Sentendosi un po’ stupida per aver coinvolto la sorellina in una simile avventura, le aveva afferrato la mano per riportarla a casa. Si rendeva conto tutto a un tratto che, se Gesù non aveva ascoltato la sua preghiera da casa, probabilmente non l’avrebbe fatto neanche da lì. Non sarebbero stati cento metri e una statuina a fare la differenza. Per i messaggi della mamma, avrebbero dovuto aspettare la primavera.
Camminava a testa bassa, stanca e infreddolita, quando Lucia aveva iniziato a ridere e a gridare: “Guarda, Lala, guarda! Le farfalle!”. Ed in effetti una piccola farfalla, bianca e leggera come quelle che a primavera volano sui prati, volteggiava davanti ai suoi occhi. Ma no, aspetta, non una sola, erano due, tre, cento, mille. La neve cadeva piano intorno a loro, disegnando strani vortici nell’aria per gli scherzi del vento. Il bambinello, nella mangiatoia, pareva sorridere di un sorriso nuovo. Lucia, ridendo, correva in tondo e girava su se stessa con la testa rivolta al cielo, mentre inseguiva le farfalle e cercava di acchiapparne quante più avesse potuto. Anche Clara rideva, o forse piangeva, non lo sapeva bene nemmeno lei. Un fiocco di neve le si era posato sulla mano tesa, lei lo studiava da vicino e intanto si compiaceva di quanto fosse stata intelligente la sua mamma. 
 

terzo classificato
Buon Natale, lucky!

di Marinella Vella

La solita vigilia, le solite luminarie, i soliti sorrisi da brava e buona gente. Ogni tanto qualche accidente,ma anche quello ci stava nella vita di un cocker randagio come lui, soprattutto quando si avvicinava  al retro di qualche ristorante e si prendeva un bel calcio nel didietro.

Il pelo color miele tutto sporco e arruffato; il sangue raggrumato su una ferita dietro l'orecchio; le pulci che non gli lasciavano tregua: anche lui ormai faticava  a riconoscersi. Se solo avessero saputo chi era stato una volta quel “cane rognoso”!

Era quello l'appellativo con cui lo chiamavano più spesso, dopo che era stato abbandonato quattro mesi prima col delizioso e benaugurante  nome di Lucky.

“Mai nome si è rivelato più inadatto” uggiolò sconsolato il cucciolo, continuando a vagare  per le vie del centro, in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. 

Come bambino, tanti e tanti anni prima, era stato battezzato Amedeo, Amedeo Righetti, figlio del famoso notaio Zeno.

Dopo una breve vita trascorsa negli agi e nel lusso, il piccolo Amedeo era stato colpito a soli dieci anni da una malattia rara che in breve tempo lo aveva portato via. L'ultima cosa che aveva visto era stato il volto di sua madre, seduta  al suo capezzale. Il suo dolce sorriso, le sue calde carezze, i suoi occhi  grandi e carichi di dolore. Lui a un certo punto si era lasciato andare, proprio come gli succedeva prima di addormentarsi quando era troppo stanco dopo una partita di calcio con gli amici. Poi il buio aveva oscurato la memoria di quello che era accaduto dopo.

Della sua mamma canina e degli altri cuccioli ricordava poco o nulla, poiché era stato separato da loro molto piccolo e a malapena svezzato.

Non comprendeva come mai  gli fossero rimasti dei brandelli di coscienza della sua vita precedente, cosa che non succedeva nella 

maggioranza degli altri animali che aveva incontrato fino ad allora.

Si abbaiava del più e del meno, si ringhiava di fronte allo stesso osso conteso, si guaiva per qualche malanno. Eppure solo lui e pochi altri si ricordavano, seppur vagamente, di un' esistenza diversa. Ad esempio, il sindaco Bonotti,  vecchio gatto nero e spelacchiato, che regolarmente gli soffiava contro   nel  cortile dove se ne stava accoccolato venti ore al giorno. In quell' altra vita aveva preso di mira  chi non era bianco, bigotto e benestante come lui. E ora si ritrovava  malnutrito, con la fama di iettatore  e preso spesso a bastonate da un povero emigrato, sempre arrabbiato col mondo e dedito a frequenti  sbornie di vino scadente.

Aveva riconosciuto anche un famoso personaggio televisivo, ai suoi tempi quasi onnipresente in svariate trasmissioni. In veste di variopinto pappagallo, non faceva che gracchiare tutto il giorno dal davanzale di un palazzo del centro. Ai passanti ripeteva in continuazione “Buooonasera amici, saluuuti da Pepito, Pepito, Pepito!”

 “Che vita da cane!” pensava  il povero Lucky che si era riparato dal vento freddo sotto un porticato. Sbattuto in autostrada dall'egoismo di padroni capricciosi che dovevano partire per un lungo viaggio in Indonesia, per poco non gli era scoppiato il cuore in mezzo a quei mostri ruggenti che correvano come saette. Era riuscito a scamparla e si era ritrovato a vivere da randagio, imparando a lottare con altri senzafamiglia come lui  per qualche avanzo di cibo scovato qua e là .

Chiuse gli occhi, cercando di assopirsi, per non pensare ai morsi della fame che gli attanagliavano lo stomaco.

All'improvviso si rivide bambino, mentre preparava il presepe insieme ai suoi fratelli la vigilia di Natale. Che strano! Era la prima volta che ricordava così bene nei minimi particolari qualcosa della sua vita precedente. La sua specialità era sempre stata disporre gli animali,  mentre i  fratelli più grandi si occupavano di tutto il resto.

I dromedari, le pecore, i maiali, le galline, le oche... Solo alla fine sistemava i tre cani pastore, accanto ai loro greggi.

-Ma Gesù non ce l'aveva un cane?- aveva chiesto una volta alla mamma.

-Beh, il suo papà faceva il falegname, forse un cane non gli  serviva...

Era rimasto deluso da quella risposta. Un cane sarebbe stato un ottimo compagno di giochi per un bimbo senza fratelli come Gesù.

Una folata di vento più gelido riscosse il piccolo cocker da quel ricordo. Si sentiva debole e intirizzito. Lui che aveva sempre amato gli agi, le coccole, il cibo in scatola... ora non  trovava da mangiare nemmeno un vecchio ratto. C'era nell'aria dell'imbrunire un odore strano: sapeva che di lì a poco avrebbe iniziato a nevicare. Sarebbe morto in breve tempo e di lui non sarebbe rimasto che un fagotto di pelo congelato, sotto le luminarie a forma di stelle. L'indomani  lo avrebbero gettato in un cassonetto: forse  avrebbe avuto un'altra chance, o forse ci sarebbe stato solo il buio assoluto, per sempre.

Alzò lo sguardo e fissò il maestoso albero pieno di luci e di nastrini che si trovava poco lontano, in mezzo alla piazza. I bambini del paese avevano allestito sotto di esso un grande  presepe, portando ciascuno qualcosa. C'erano statuine di dimensioni diverse, alcune di plastica, altre di terracotta...Alcune pecore era fatte con il cotone idrofilo, alcuni pastori con dei tappi di sughero e degli stuzzicadenti. Era davvero un presepe bislacco, eppure a Lucky sembrava bellissimo. All'improvviso sentì cadere sul muso i primi fiocchi di neve e poco dopo un turbinio di minute farfalline bianche invadeva il cielo ormai scuro. Gli occhi del cucciolo iniziarono ad appannarsi: una grande stanchezza stava per sopraffarlo, di nuovo, come tanto tempo prima.Stava per lasciarsi

andare, quando sentì il calore di una grossa mano che lo sollevava. Alzò lo sguardo e vide prima la barba e poi gli occhi  di un vecchio che lo fissava sorridente con sguardo bonario. Poi vide un bimbo piccolo, cullato tra le braccia di una ragazza mora, dagli occhi lucenti, pieni di tenerezza. La mano dell' uomo accarezzò la testa e il dorso di Lucky con un calore che non aveva mai provato, poi  depose per terra il cucciolo, che iniziò a scodinzolare in segno di riconoscenza. La ragazza mise il neonato in una culla, poi  versò in una ciotola, accanto al cagnolino, un po'  di buon latte di capra che un pastore aveva donato alla povera famigliola. Il cucciolo iniziò a lappare avidamente: il cuore gli esplodeva di gioia e si sentiva pervaso da una serenità mai provata. Quelli sarebbero stati i suoi nuovi padroni e  non l'avrebbero mai abbandonato.

 -Ehi, guarda c'è un cocker nella capanna- gridò un bimbo lentigginoso alla mamma,  osservando il presepe della piazza.

 -E' il cane di Gesù!- esclamò un'altra bimba.

Un cagnolino di terracotta  se ne stava accucciato accanto alla mangiatoia, davanti a una piccola ciotola. Quel cocker non era più Lucky e nemmeno Amedeo Righetti. Adesso era solo  un cucciolo del presepe, ma era davvero felice.

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